La storia di ARCHER MACLEAN e DROPZONE

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Archer Maclean

 

Non esiste né è mai esistito al mondo un videogioco che sia piaciuto a tutti.
Perfino DOOM non gode dell’amore incondizionato del 100% dei videogiocatori, dove andremo a finire, signora mia, quali certezze ci rimangono? Lo so, sembra incredibile ma conosco persone davvero degne di stima che non considerano i 3 Monkey Island di Ron Gilbert dei capolavori assoluti privi di difetti. È incredibile!
La verità è che qualsiasi “capolavoro” ritenuto inattaccabile oggi, a guardar bene, ha ricevuto delle critiche al momento dell’uscita – così come, viceversa, ci sono videogiochi super-attesi e inizialmente incensati come definitivi poi dimenticati nel giro di due mesi, e altri ancora, bollati come ciofeche al day one e poi, magari dopo molti anni, rivalutati.
Tutto questo ragionamento non vale per Archer Maclean.
MacLean, nel corso della sua carriera ha creato titoli che sono stati convertiti su moltissime macchine diverse come Commodore 64, Amiga, PC e Super Nintendo. La cosa più impressionante su di lui è che ne ha scritti tredici interamente da solo: tutto il codice, tutta la grafica, tutto il suono. Undici di quei tredici hanno raggiunto la prima posizione nella classifica delle vendite e quasi tutti sono considerati ancora oggi dei capisaldi della programmazione sulle loro rispettive macchine di concepimento.
Autentica superstar del videogioco nel Regno Unito, Archer MacLean era apparso in numerosi articoli di giornali e riviste e anche in TV. Negli Stati Uniti, era principalmente conosciuto per “Dropzone” su Atari 800 e “International Karate” per il C64, entrambi considerati dei classici per le rispettive macchine. Archer Maclean è morto in ospedale il 24 dicembre 2022.

Andiamo a dare un’occhiata da vicino a quest’uomo e al suo primo titolo in assoluto: Dropzone.

 

Nato il 28 gennaio del 1962, Archer MacLean è quello che si può definire un “ragazzo prodigio”. Estremamente dotato e precoce, già a metà degli anni ’70 è in grado di costruirsi gadget elettronici realizzando dozzine di cose strane come piccoli dispositivi robotici con ruote che riescono a seguire una linea bianca sul pavimento, radio che possano essere contenute in una scatola di fiammiferi e persino un oscilloscopio digitale portatile molto complesso che usa una griglia di LED a bassa risoluzione fatta a mano come schermo.
All’età di 15 anni, nel 1977, inizia ad assemblare semplici schede elettroniche basate sul microprocessore Motorola 6800 o sullo Zilog Z80. Sono sistemi incredibilmente semplici, con 2K o 4K di RAM e forse 2K di sistema operativo, ma programmarli in linguaggio macchina è per lui una cosa banale, all’ordine del giorno.
Ben presto impara a comprimere i programmi in piccoli spazi RAM e rende il codice molto snello e altrettanto efficiente, qualità questa vitale per la programmazione dei videogiochi dell’epoca. Con l’arrivo degli anni ’80 si cimenta con l’assembler, o con un certo nuovo linguaggio denominato BASIC di una certa strana azienda chiamata Microsoft. Scrive enormi programmi per la società di elettronica per cui lavora. Sono più che altro gestionali di fatturazione, di logistica, e amministrativi. Ha solo 18 anni ed è già universalmente considerato un ragazzo prodigio, un guru della programmazione, un’intelligenza superiore alla norma, un po’ perché effettivamente lo è, e un po’ perché nessun altro sembra ancora essere in grado di fare cose simili a quelle che fa lui.

 

Fra l’80 e l’81, però, “Space Invaders“, “Asteroids” e molti altri videogiochi iniziarono a comparire ovunque: nei pub, nei club, nei ristoranti e, appunto, nella reception della ditta per la quale lavora. Come tutti in quel periodo ne rimane affascinato e diventa un accanito videogiocatore determinato a battere i punteggi più alti ovunque riesca a trovare un cabinato.
Affascinato anche dal punto di vista della programmazione, prova a scrivere i suoi primi videogiochi. Ben presto per lui diventano un’ossessione e in assembler prova a fare un clone di “Asteroids”. Nel giro di tre settimane, programmando a tarda notte ( la programmazione notturna diventerà una sua caratteristica peculiare nel corso degli anni) riesce a crearne una versione estremamente giocabile e fluida. Di più! Sviluppa un’eccezionale abilità mentale nell’analizzare i meccanismi dei videogiochi in sala giochi e ricrearli sulla sua misera macchina a 8bit di casa.

Archer Maclean
Un’istantanea del maestro

Come detto all’inizio, Archer MacLean nutre sentimenti di forte soggezione verso le creature di Eugene Jarvis, ecco perché vuole riuscire a fare un videogioco come minimo uguale ai suoi.

«Al tempo, se un qualsiasi programmatore vedeva un gioco arcade e voleva riprodurlo secondo la sua interpretazione, non c’erano grossi problemi legali », spiega Maclean con un sorriso ironico durante un’intervista. « Nella sala giochi vedevi qualcosa che ti piaceva e provavi a rifarlo a casa tranquillamente». Ovviamente in DropZone di MacLean si ritrovavano aspetti di Defender, Stargate, Scramble e una mezza dozzina di altri sparatutto laterali. «Ma la vera sfida era far volare tutta quella roba sullo schermo con un processore a 8 bit che girava a 1 mhz o giù di lì… il punto era quello».

Poi Maclean incontra gli home computer Atari e improvvisamente tutto sembra possibile.

Archer Maclean
Working on International Karate

« Ero a una fiera di elettronica all’Ally Pally di Londra nel 1979. Ero lì con la società di elettronica per cui lavoravo, e Ingersoll, che deteneva il franchising per vendere computer Atari nel Regno Unito, aveva lo stand proprio di fronte a noi. È lì che ho visto Star Raiders e mi ha sbalordito. Come poteva muovere tutti quei pixel con il 6502? Come poteva spostare la grafica così velocemente e rilevare i colpi con così tante cose che accadevano? »

Rimane stregato dalla bellezza di quel videogioco e dalla qualità della piccola macchina di casa Atari. Nessuno aveva mai visto niente di simile prima dato che fino a quel momento le pietre di paragone erano titoli in stile “Pong” e “Tank” spesso in bianco e nero. «La gente sarebbe stata disposta a guidare per miglia pur di dare un’occhiata a Star Raider e giocarci. ». Lui stesso rompe due o tre joystick e un paio di sedie tentando di liberare l’universo dai caccia stellari nemici! ( per quanto riguarda i joystick, lo capisco. Ma le sedie? Tremo al pensiero di sapere come abbia fatto a rompere le sedie )

 

Entusiasta, Maclean si reca in un Silica Shop nel Kent per comprare un Atari 800 il giorno stesso  in cui arriva ufficialmente sul mercato inglese.

Tutta questa passione lo porta al logico passo successivo, ovvero, la consapevolezza che doveva esserci dell’hardware davvero smart all’interno del suo Atari 800. Tutto quel carnevale sullo schermo non si sarebbe potuto fare solo affidandosi alla programmazione. Sotto quel cofano c’era di sicuro un gran motore e voleva saperne di più sull’architettura interna per poterlo sfruttare al massimo. Purtroppo a quei tempi sembrava che anche la stessa Atari fosse rimasta a bocca aperta riguardo a cosa ci fosse esattamente all’interno della sua stessa macchina e i testi di riferimento erano pochissimi.
Eppure anche il più intrepido degli esploratori ha bisogno di una mappa, così Archer Maclean sente parlare di una pergamena leggendaria, De Re Atari Un manuale scritto da Chris Crawford e da una mezza dozzina di altri importanti ingegneri del quartier generale di Atari in California, sembrava essere il tomo mistico che avrebbe rivelato i tesori nascosti dell’ Atari 800, e una volta letto, Archer non può più tornare indietro. Per i successivi due anni il suo chiodo fisso sarà quello di fare un videogioco che spinga l’800 al limite.

«Sembrava che fosse il Libro tibetano segreto dei morti, o qualcosa del genere», ride Maclean. «Dovevo averlo e ho finito per pagare una copia fotocopiata e farmela spedire dagli Stati Uniti. Un grosso, grasso pacco alto tre pollici di carta. Leggerlo è stata come un’esperienza religiosa. Avevo trovato il mio Santo Graal! Improvvisamente, il sipario è stato sollevato e tutti i trucchi magici che si potevano fare con l’Atari 800 sono stati messi a nudo.»

La prima rivelazione è stata la scoperta del chip video programmabile, chiamato ANTIC, completo del proprio set di istruzioni. Gli sprite ( o player missile graphics, come li definiva Atari ) e l’hardware che gestiva tutto il rilevamento delle collisioni.

«Lo schermo Atari era generalmente largo 40 caratteri, pari a 160 pixel, e il panorama planetario di Dropzone era una lunga striscia larga 255 caratteri. Con un’istruzione potevo semplicemente dire al chip video ‘inizia qui’  e improvvisamente visualizzavo l’intera immagine, ma senza dover ri-tracciare interi blocchi di immagini. E poteva farlo con uno scorrimento fluido! L’hardware Atari era ciò che faceva funzionare Dropzone. Non avrei potuto fare un gioco simile su una macchina diversa »

Ora Maclean ha la conoscenza, ma ha bisogno anche di tempo. Nel 1981, inizia gli esperimenti di programmazione che poi si sarebbero evoluti in Dropzone, ma le esigenze del suo corso universitario e le distrazioni, sia alcoliche che femminili, fanno sì che il gioco abbia una gestazione particolarmente lunga. Ironia della sorte, la spinta finale arriva quando le cose si mettono male e durante le sessioni di programmazione notturne rovescia una tazza di caffè sul suo fidato disk drive da 5,25. Maclean si reca a Cheshunt, presso il quartier generale di Atari nel Regno Unito a Londra per farlo riparare.
Uno degli ingegneri, John Norledge, glielo aggiusta ma dopo lo prende da parte e gli chiede informazioni riguardo alle incredibili demo che aveva trovato sul disco bloccato all’interno dell’unità. Archer confessa di averle fatte lui stesso e una cosa a un’altra, un discorso tira un altro e così finisce per guadagnarsi un’intervista di lavoro presso gli uffici di Atari in California. Una cosa che fino a quel momento per lui era solo un sogno.

Sfortunatamente, proprio mentre Maclean sta pianificando una nuova vita programmando al sole della California, la potente Atari implode nel Grande Crash dei Videogiochi dell’83 e la sua assunzione viene bloccata, riesce però a lavorare sotto contratto con Atari Europe. Ma anche se alla fine si doveva accontentare della serie B, aveva ancora il suo codice e una crescente fiducia di poter creare qualcosa che corrispondesse, se non superasse, le sue ispirazioni.

Il sempre più notturno, Maclean ha bisogno di un’ultima epifania. «Una notte sto guardando questo vecchio film di fantascienza degli anni ’50 e c’è questa scena in cui un robot sfreccia sulla superficie di un pianeta. Passa giorni sveglio, ingollando un concentrato di caffeina in pillole, ( Pro Plus ) per ottenere il paesaggio giusto. Tutte le idee che ha avuto negli ultimi anni adesso si concentrano in poche settimane.”

Nasce così l’omaggio di Maclean al gioco che ha caratterizzato la sua giovinezza: Defender. Ricuce insieme i segmenti del pianeta e in men che non si dica il suo eroe equipaggiato di jetpack sta sfiorando la superficie, facendo esplodere una serie di alieni da lui stesso creati usando il suo editor di pixel. Le esplosioni – 125 grumi di pixel sparsi in tutto lo schermo – eruttano come vulcani. I droidi che pattugliano il pianeta vengono reimmaginati come scienziati che vagano sulla superficie in disperato bisogno di essere salvati e messi in sicurezza nella “Dropzone”.

Eppure il gioco è quasi finito e manca ancora un nome definitivo. Maclean non ha ancora un’idea a riguardo. « Mi piaceva il paracadutismo, lanciarsi da 14.000 piedi e tirare il paracadute a 3.000 frenando da 120 miglia all’ora a circa 10 in due secondi fa maledettamente male! Durante la discesa, con voce acuta, ho chiesto all’istruttore a cui ero legato se la scuola di paracadutismo fosse sua e lui ha detto, sì, si chiamava Dropzone Industries. Ok. Un nome così potrebbe funzionare, mi sono detto…»

Una volta tornato a terra, l’intraprendente Maclean è pronto a fare scalpore. In una mossa particolarmente ispirata di guerrilla marketing, assiste alla fiera “Personal Computer World” alla Earls Court Exibition di Londra e di nascosto fa scivolare un floppy con il gioco in un drive di una postazione particolarmente in vista allo stand Atari.

« La gente ha iniziato a prendere in mano il joystick e presto a centinaia si sono accalcati intorno alla postazione. I corridoi erano pieni. È stato un caos incredibile »

Dopo il successo di questo improvvisato test sul campo, Maclean ha avuto poche difficoltà ad attirare l’interesse degli editori, firmando infine con US Gold.
Il problema fu che dopo circa diciotto mesi dall’uscita ufficiale sul mercato, l’editore gli disse che Dropzone non era più in produzione e smise di pagargli i diritti d’autore. Era, ovviamente, una truffa. Us Gold non sapeva che Maclean viaggiava molto e aveva trovato e acquistato copie di Dropzone in vendita in tutta Europa e in Australia, conservando le ricevute e spesso scattando foto sul posto. Sul contratto che aveva firmato era chiaramente indicato che Dropzone NON dovesse essere venduto fuori dell’Europa. Poi, nel 1988, Archer vede un annuncio commerciale a doppia pagina di Dropzone su una rivista americana e ne compra una copia da far girare su una macchina americana. Non funzionava né suonava troppo bene perché era una versione per macchine europee, e il risultato era davvero brutto, quasi imbarazzante.

A quel punto la misura è colma. Di ritorno nel Regno Unito si rivolge a un legale e cita in giudizio US Gold per inadempimento contrattuale e violazione del Copyright. Dopo quattro anni di tira e molla con Us Gold che cerca di negare in tutti i modi l’evidenza, la causa si risolve in via extragiudiziaria e a MacLean vengono corrisposte tutte le royalties dovute. Archer MacLean si compra la sua prima Ferrari. È una 288 GTO. La stessa macchina del suo eroe personale: Magnum P.I.

Archer Maclean
288 GTO

Rilasciato nel 1984, Dropzone è stato un enorme successo commerciale e di critica. Ha contribuito a identificare Maclean come uno dei principali sviluppatori di software britannici che avrebbe continuato a produrre titoli di rilievo come IK+, Jimmy White’s Snooker, e Mercury. Quest’ultimo titolo lo ha portato a stringere legami con diverse riviste di giochi e un’attività secondaria come editorialista su testate che includono Zzap!64, Amiga User e Retro Gamer.

Dropzone ha poi abbellito la ludoteca del C64, una conversione fatta da Maclean che descrisse diplomaticamente come “una sfida” dato l’hardware inferiore, e sono apparse versioni licenziate su Game Boy, NES e SNES. Il gioco ha anche avuto un breve cameo come macchina arcade a tutti gli effetti nel film documentario “Insert Coin”, ma è stata la sua inclusione nel MAME a fornire a Maclean il massimo riconoscimento.

FONTI:

https://dadgum.com/halcyon/BOOK/MACLEAN.HTM

http://web.archive.org/web/20070221212042/http://www.edge-online.co.uk/archives/2007/01/the_making_of_d_1.php

Archer Maclean


Simone Guidi

Uomo di mare, scribacchino, padre. Arrivo su un cargo battente bandiera liberiana e mi installo nella cultura pop anni 80/90. Atariano della prima ora, tutte le notti guardo le stelle e aspetto che arrivino gli UFO.

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