SPACE TAXI: John Kutcher come in Rocky III

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Space Taxi

 

Ciò che permette a John Kutcher di rientrare nella lista dei programmatori più importanti della storia del Commodore 64 è certamente la sua capacità di non adagiarsi nella comodità, tipo quella di essere John Kutcher, per dirne una, ma di essere autore di un capolavoro talmente immortale come Space Taxi che, passati ormai 35 anni dalla sua pubblicazione, gli permette tranquillamente di rilasciare interviste e ricevere apprezzamenti ancora adesso che sta affrontando la sesta fase della vita nella totale serenità.
John Kutcher è come uno di quei cantanti che negli anni ’80 ha piazzato una hit wonder che ha fatto ballare il mondo per mesi, ma dopo non ha più registrato un disco decente e tutti se lo sono dimenticato. Nonostante questo, però, quando poi si riparla della musica di quegli anni là è impossibile non nominarlo o fingere di ignorarlo. Si torna sempre a parlare del suo pezzo e di una serie di altri pezzi suonati da colleghi che spesso orbitano nella stessa essenza emozionale. Buon ascolto con Space Taxi 🚕.

 

Vi ricordate il terzo capitolo della saga di Rocky? C’era Mickey, il suo allenatore, che a un certo punto gli dice che non vuole allenarlo per combattere contro Mr. T: «Ragazzo, ti è capitata la cosa peggiore che può accadere ad un pugile: ti sei civilizzato.»; ecco, questo forse vale anche per i programmatori negli anni ’80. Forse ad un certo punto finiscono di avere qualcosa da dire. Se non ti chiami Jeff Minter è quasi fisiologico, nulla di male, per carità; guadagnano i primi paperdollari, crescono, capiscono che nella vita tutto ha necessariamente un costo e la pirateria impedisce di farli guadagnare quanto dovrebbero, magari continuano gli studi o mettono su famiglia, fanno figli, i pensieri e le bollette aumentano, trovano un lavoro sicuro e ben retribuito, ciaone. Insomma, è difficile dargli torto alla luce di come sono andate le cose in quegli anni. È difficile fare i romantici tra mutui e rate, no?

Così ci si deve accontentare di quello che si ha, di quel poco che sono riusciti a produrre prima di scegliere di tirare a campare nel modo più sicuro e redditizio.
Nel caso di John Kutcher c’è da parlare di Space Taxi: un vecchio gioco per Commodore 64 di quelli che hanno azzeccato la ricetta giusta per funzionare alla grandissima 35 anni fa, e adesso non funzionerebbero più perché la cucina è cambiata, le ricette sono cambiate, e pure i gusti del commensale sono cambiati, peggiorati forse, ma questo è un altro discorso. Ecco, avete presente di cosa sto parlando? Se no, state più attenti a quello che leggete su questo blogghino ( e cercate di commentare, dei like non me ne faccio nulla) perché giusto qualche settimana fa si parlò di un caso simile con Montezuma’s Revenge e sono sicuro che se approfondissi il discorso mi renderei conto che molte carriere sono finite così.

 

È stato lo stesso John Kutcher, prima che mettesse da parte il suo talento videoludico che gli permetteva di sentirsi vivo, ad avventurarsi nel mondo della programmazione, da solo, a scuola, con un TRS-80. Come per molti teen ager americani di quel tempo, il Trash80 rappresenta la prima porta attreverso la quale accedere a un mondo più vasto, magari migliore, sicuramente più complicato ma altrettanto manipolabile.
In casa sua la prendono bene. Sua madre è orgogliosa di avere un figlio così attento nelle materie scientifiche e interessato alle nuove tecnologie, talmente orgogliosa che un giorno, per caso, legge un articolo su un giornale riguardo ad alcuni ragazzi di una città vicina che hanno creato un videogioco. Sono giovani, energici, e pare che stiano facendo un mucchio di soldi. È lei stessa a proporre a suo figlio di incontrarli. Cosa che, puntualmente, avviene. John rintraccia i ragazzi e si trova con loro. Lui ha diciassette anni e loro sono gentili. Gli fanno vedere tutto quello che hanno codificato e gli danno delle buone dritte per fare un suo proprio gioco. È così che John Kutcher decide di programmare il suo primo videogioco “serio”.
È il 1983, il Commodore 64 è uscito da poco sul mercato e pare una rivoluzione. John lo vuole. Sul TRS-80 può programmare solo giochi in bianco e nero con dei pixels grandi come noccioline, con il C64 sarebbe stata tutta un’altra storia. Così, durante quell’estate che lo separa dall’inizio del suo primo anno di College, corre da suo nonno (quello ricco) e gli chiede un prestito per entrare in paradiso. Appena lo ottiene compra un C64 e comincia a lavorare su Rescue Squad.

 

Scritto interamente quell’estate del 1983, Rescue Squad è in realtà 3 giochi in uno. Pare carino, funziona, non è eccezionale ma è buono abbastanza per sperare in una pubblicazione da parte di una software house.
Nelle numerose interviste rilasciate negli anni, a John Kutcher spesso scappa da ridere quando lo racconta ( probabilmente perché ai giorni nostri una cosa del genere è pura fantascienza) ma per trovare l’editore del suo gioco non fa altro che sfogliare le pagine gialle e cercare nelle vicinanze di casa sua, a Baltimore. Il dito si ferma su un nome: MUSE SOFTWARE. Alza la cornetta e compone il numero:
«Salve, pubblicate giochi per il Commodore 64?»
«No. Ci dispiace, non li pubblichiamo.» risponde l’operatore.
«Peccato, perché io ne ho uno da far pubblicare…» dice John riabbassando già la cornetta.
«ASPETTA!ASPETTA!» strilla la voce al telefono. «Non li pubblichiamo, ma vorremmo pubblicarli!»
Così, il diciassettenne John Kutcher, per il rotto della cuffia rimedia un appuntamento con Muse Software e mostra Rescue Squad. Gli dicono che è bello ma ci devono pensare. Quando torna a casa scopre che nel frattempo lo hanno già richiamato e che deve ritornare nella sede della software house per firmare il contratto. Pubblicheranno Rescue Squad e per renderlo più accattivante delegheranno il loro programmatore Silas Warner, già autore di Castel Wolfenstein, ad aggiungere una valida colonna sonora.

space taxi

Galvanizzato dagli eventi, John Kutcher inizia a lavorare su Space Taxi quell’autunno, mentre il suo primo anno alla Hopkins University viene finanziato dai proventi delle vendite di Rescue Squad. John approfitta di tre settimane di pausa dalle sessioni universitarie, a Gennaio 1984, per darci giù duro e chiudere il discorso. È una matricola dell’università e deve gestire per bene il suo tempo.
Lunar Lander e Asteroids di mamma Atari sono le fonti di ispirazione, e visto che ha appena iniziato il suo percorso per diventare ingegnere elettrico, si rende conto di avere le capacità per assemblare l’elettronica necessaria a registrare la sua voce e, successivamente, digitalizzarla. Così, una volta registrati alcuni campioni, usa la porta espansione del C64 (che di solito viene utilizzata per stampare) per convertire il segnale analogico in digitale. Collega il microfono e il C64 converte la sua voce in valori tra 0 e 255, ovvero in bit, in questo modo registra le voci in-game e alcune di esse non sono altro che la stessa frase riprodotta a velocità differenti. In quel modo il tono varia e sembrano voci di persone diverse.
Definisce tutti gli sfondi in caratteri (character mode). Lui stesso crea un font dedicato e la maggior parte sono fatti con quello. Un font bello grosso, con colori diversi di livello in livello.
Muse rilascia Space Taxi sul finire del 1984 ed è un successone. La promozione del gioco va alla grandissima e porta il titolo a vincere diversi premi venendo incensato da una grossa fetta di critica.
Per John non è una sorpresa. Se già Rescue Squad aveva ricevuto un premio come migliore videogioco dell’anno, Space Taxi fa il pieno di buone recensioni su circa una dozzina di riviste del settore, e lui assapora la notorietà quando vede il suo nome e quello del gioco stampati in bella vista sulle copertine nelle edicole. Il top lo raggiunge durante l’edizione invernale del CES, nel Gennaio 1985, dove vince il Consumer Electronics Software Showcase Award. Anche per Space Taxi è Silas Warner ad occuparsi della musica, e quando l’onda promozionale si frange la conta delle copie vendute si ferma a quota diecimila. Non un grandissimo numero, forse viziato dalle ridotte possibilità promozionali di una piccola Software House come MUSE, ma abbastanza per pagarsi un altro anno di college; a lui toccano il 10% degli introiti totali.

John F. Kutcher now.

Il 1985 è anche l’anno in cui John Kutcher abbandona MUSE Software per accoccolarsi sotto l’ala di Microprose. Come primo incarico gli conferiscono l’onere di portare SOLO FLIGHT: SECOND EDITION su C64 ma l’esperienza non lo gratifica abbastanza. Aggiunge ulteriori caratteristiche ad un gioco non suo, tipo volare sull’acqua, sulle montagne, ecc. Ma alla fine sceglie di mollare Microprose e lavorare per uno studio medico nell’ambito del software sanitario e della ricerca sul trauma. Alla fine, la sua carriera si concentra sulle applicazioni per computer per la gestione dei database medici che è tutt’ora quello di cui si occupa guidando una sua propria società.
Quando ripensa al passato lo fa con gioia e si ricorda benissimo di quando, nel 1986, Muse Software dichiarò bancarotta cessando le attività.
Con un amico si reca all’asta fallimentare sperando di poter acquistare qualche buon pezzo hardware ad un prezzo eccezionale ma, non è così, anzi, assiste a un mercimonio dove anche i computer rotti vengono venduti a prezzi esorbitanti, più alti di quanto costerebbero se fossero comprati nuovi di zecca.  In compenso riottiene il totale controllo su Space Taxi e Rescue Squad, ma lo cede subito a dei distributori per un paio d’anni, tanto per  farci su delle royalties aggiuntive. Adesso è lui il solo detentore di quegli IP ed è piacevolmente sorpreso di quanta gente ancora riesca a ricordarsene contattandolo per fargli i complimenti.

PICCOLA RIFLESSIONE

Capisco benissimo che a scrivere di questi vecchi videogiochi, di questi vecchi programmatori (come ho già fatto più volte, per altro) si rischia di fare la parte degli anziani parrucconi, che tanto non c’è bisogno, che tanto l’argomento si liquida con un commento al vetriolo su un gruppo Facebook del cazzo, ma lo faccio perché voglio ricordarmi/ricordare di gente che durante la propria carriera ha davvero cavalcato il sogno della rivoluzione informatica.
“Space Taxi”, “Montezuma’s Revenge”, “Bruce Lee”, sono solo alcuni videogiochi (stupendi) programmati senza bisogno di orpelli, senza bisogno di camionate di gente e paperdollari, con la chiara volontà di mettere il proprio lavoro al servizio del divertimento di chi lo fruisce, così come di chi lo sta facendo. E sono questi i videogiochi dell’alba, quelli ribelli, quelli che erano capaci di cambiare il panorama con poco. In un certo senso rendevano il mondo di noi brufolosi un posto migliore, colorato, puramente ludico. Gran Thief Auto, Overwatch, Uncharted, nessuno se la prenda, a confronto sembrano il ripetersi dello stesso modello che per certi versi potrebbe essere anche pericoloso, convincendo le nuove generazioni che, contenutisticamente parlando, sia necessario fare solo quello: sparare, uccidere, proteggersi, distruggere.
Vabbè. La smetto qui. Per oggi ho finito, vostro onore. Voi che ne pensate? Siete della mia stessa opinione? Lasciate un commento qui sotto e smettete di cliccare quel cazzo di like.


Simone Guidi

Uomo di mare, scribacchino, padre. Arrivo su un cargo battente bandiera liberiana e mi installo nella cultura pop anni 80/90. Atariano della prima ora, tutte le notti guardo le stelle e aspetto che arrivino gli UFO.

9 Replies to “SPACE TAXI: John Kutcher come in Rocky III”

  1. vik

    Caro Simo, da vecchio Commodoriano quale ero (fu un trauma ed, al tempo stesso, un fulmine a ciel sereno per me il fallimento di mamma Commodore) mi sono passati per le mani tonnellate di giochi del C64.
    Ti dico passati (e tanti copiati e chiaramente giocati con grande soddisfazione) perchè ovviamente a quei tempi un 11enne aveva in mano si e no 400 o 500 lire al giorno (che mi riservavo di spararmi ai coin-op ben più libidinosi in sala giochi, vedi Dragon’s Lair per es. un paio di anni di anni dopo).
    Era impossibile quindi anche solo pensare di comprare la valanga di giochi che invece, me tapino, mi vedevo passare sotto il naso.
    La passione per i computers e la programmazione (con cui mangio tuttoggi) è per me di vecchissima data.
    Pensa che ho imparato a programmare, a 10 anni, in assembly 6502 sul glorioso PET 4032 dopo aver potuto brevemente mettere le mani su di un Rockwell KIM-I, che non aveva un monitor ma un display a 14 segmenti (alfanumerico quindi) tipo quello delle calcolatrici.
    Il PET lo potevo usare, a turno, alla GBC (che non so se esista più, almeno per ciò che era, di sicuro so che quella dove andavo io, la più grande nella mia città, ha chiuso oltre 20 anni fa).
    Questo era possibile solo grazie alla infinita gentilezza del capo del reparto microelettronica che, avendomi preso in simpatia, mi permetteva di passare lì le giornate dopo i compiti e mi lasciava usare il PET in esposizione.
    Quando vidi il Vic 20 sembrava un’astronave al confronto (con i suoi colori ed i ben 3,5kB liberi in un decimo dello spazio del PET!).
    Il vero amore fu però l’incontro con il C64.
    Aveva il 6510 che non era altro che un 6502 travestito con una porta VIA a 8bit, un clock inchiodato ad 1MHz, ma, per la prima volta, era coadiuvato da un chipset di supporto video e audio con i controcaxxi, il VIC ed il SID.
    Ho passato le migliori ore della mia giovinezza (quando non si usciva con gli amici e si andava a cercare invano ragazze, eh si, ero proprio un brufoloso) tra BASIC ed assembly del C64.
    Sono entrato nel giro dei giochi tramite qualche contatto “giusto”, ovviamente altri brufolosi, e giusto perchè, sapendo programmare in assembly e conoscendo le ROM del 64 praticamente come le mie tasche, alla fine mi passavano i giochi perchè li crackassi io stesso per loro.
    Ne ho craccati all’incirca una decina, ed alcune protezioni erano davvero contorte e toste.
    Tutto perchè poi si potesse scrivere una intro e questi giochi modificati potessero girare in quel mondo sotterraneo delle demo e delle intro, dove la libidine massima era poter vedere un nome, o più spesso una sigla scorrere nella intro al gioco e mandare messaggi e saluti a quel gruppo o a quell’altro.
    Mi pare fossi DrK, cioè dottor K, e il mio spacciatore di giochi era Poerio Inc., una ragazzo che al tempo orgasmava all’idea di vedere il suo nome nelle intro (che mi commissionava, ah ah, se ci penso oggi).
    Pazzesco se si pensa che nessuno, se non i tuoi più stretti amici e conoscenti, un gruppetto sparuto di persone che più o meno bazzicavano quell’ambiente, sapeva quella sigla essere lì il tuo nome in codice.
    Quel periodo e tutte quelle ore di intenso apprendimento e divertimento passate sul 64 sono rimaste per me il top nonostante l’Amiga 2000 (una macchina superba e senza confronto, tecnicamente parlando, col 64) che mi comprai successivamente con i sudati risparmi di anni (uno studente delle superiori quale ero, immagina quante paghette messe da parte).
    Insomma tutto questo per dirti che quello spirito di cui parli credo di conoscerlo piuttosto bene (per inciso in mezzo a tutte le centinaia di giochi visti e alle decine di giocati effettivamente, ironicamente, Space Taxi non me lo ricordo proprio, forse non l’ho mai avuto tra le mani).
    Tra le varie si è pure provato a metter su un paio di giochi da zero, un clone di Lady Bug ed un simil Pac Man, senza però mai la percezione della possibilità di farci neanche 1000 lire.
    Voglio dire che l’idea di poter vendere una qualunque cosa scritta da me e/o insieme ad altri appassionati non ci è mai passata per la testa, nè tantomeno qualcuno la ha mai ventilata seppure come ipotesi.
    Non eravamo neppure al corrente del mercato dei videogiochi, ci sembrava essere qualcosa di esclusivo appannaggio di grosse aziende non certo di quattro brufolosi e comunque il tutto era percepito in modo molto confuso.
    Eravamo di una ingenuità di molte lunghezze superiore alla stupidità o equivalentemente eravamo affetti da totale cecità commerciale.
    Io li craccavo i giochi, ma per divertimento, il tizio che ce li passava (non il mio diretto contatto) ci si è fatto su letteralmente una villa.
    Neanche quando ci è stato detto che se l’era comprata, per la cronaca aveva 5-6 anni più di noi, abbiamo mai pensato di poterci effettivamente guadagnare qualcosa: continuavamo a parlare della cosa con stupore ed incredulità.
    Erano altri tempi, oppure eravamo davvero fessi noi.
    Se penso a quanto avrei voluto realizzare un adventure testuale alla Zork e non lo ho mai fatto principalmente perchè pensavo che non lo avrebbe giocato nessuno a parte un paio di amici.
    E se penso a quando poi ho scoperto, quasi 20 anni dopo, quanto avevano venduto quei giochi così primordiali, beh, ero, come al solito, stupito…
    Occasioni perdute, forse.
    Del resto il sud Italia era tutto fuorchè l’America.
    Non so se questo mio lungo commento possa essere off-topic, in qualche modo si, ma di sicuro è pregno della passione per i giochi (per quei giochi così primitivi ma veri), per lo smontarli e tentare di rifarli, ed il grandissimo piacere di giocarli nonchè per i computers, per la programmazione e l’elettronica, cosa che poi alla fine mi ha permesso di tirare a campare.
    Anche io infatti, al pari del nostro John Kutcher sono finito a fare lo sviluppatore per prima piccole, adesso grosse aziende IT e ci campo da professionista.
    Il mondo dei giochi però non l’ho abbandonato mai, ci continuo a girare tutto il tempo attorno, scrivo un pezzetto oggi, un pezzetto domani, e chissà, magari un giorno… (
    Sono un indie, con molta passione ma con troppo poco tempo e niente denaro da poter investire, quindi faccio tutto da solo. Alla fine è un hobby come un altro.

    • Simone Guidi

      Ciao Vik, sai, devo essere onesto con te, delle volte mi chiedo perché continuo a scrivere di questa roba retrogiocosa sul blog ( veramente mi chiedo anche perché debba continuare tenere un blog ai tempi di Twitch, Youtube, e una imberbe Spreaker), quando sembra veramente non importare a nessuno. Il tipico retrogamer non se ne cura perché tanto “già sa tutto” e non vuole lezioni da nessuno, il casual retrogamer non se ne cura neanche lui perché legge il titolo, guarda la copertina, clicca like e se ne va. Insomma, ultimamente sono parecchio disamorato della categoria e tutti questi sentimenti, non so se ci hai fatto caso, li ho condensati dentro all’ultimo episodio de “La sanguinosissima guerra del Retrogaming”.
      Poi, ecco, arrivi tu e mi scrivi un commento del genere in coda a questo articolo e io ci rimango di merda. È un commento sentito, una testimonianza vera di uno che, come me, c’era ed ammette, con una punta di rammarico ma neanche tanto, di essere stato abbastanza fesso da non intuire le dimensioni del fenomeno e la stronzaggine umana.
      Ecco. Adesso posso dire che questo articolo, oltre che per me stesso, l’ho scritto per te, e ne sono molto contento. Almeno ora so che tutto il tempo passato a documentarmi su Kutcher non è stato vano e qualcuno ha apprezzato quello che ne ho tirato fuori. Grazie Vik.
      E comunque anch’io andavo spesso alla GBC. Mi ricordo che mio fratello mi ci mandava a comprargli i componenti elettronici necessari per i suoi studi da perito elettronico prima e ingegnere elettronico dopo. Bei tempi, sì.
      Grazie ancora per lo splendido commento.

      • vik

        Ciao Simo, probabilmente sai che faccio parte, da diversi anni, del tuo affezionato gruppo di lettori e che leggo sempre il tuo blog con grande interesse e piacere.
        Se non ci fossi dovrebbero inventarti, perchè, francamente, non ho trovato altri blog del genere che possano rivaleggiare con il tuo, e intendo da diversi punti di vista.
        Non è una sviolinata ma un semplice dato di fatto.
        Dovresti essere ben più conosciuto, te lo meriteresti senza alcuna ombra di dubbio.
        Purtroppo, come tu stesso sei ben consapevole, il pubblico in media è molto volubile, farfallone, tronfio e superficiale (come del resto si vede in giro un pò in tutti gli altri aspetti della vita reale) per cui non mi stupisco che tu ti senta disamorato e forse anche amareggiato dal feedback che ottieni.
        Si, l’avevo intuito che in qualche modo, principalmente, ma non solo, Adriano Buccia rappresentasse il tuo alter-ego ne “La sanguinossima guerra del Retrogaming”.
        E’ una saga, che come ho già avuto modo di dirti, mi piace parecchio e che spero di veder apparire più spesso.
        Ti ringrazio per l’onore che mi fai quando dici che alla fine continui a scrivere questa tipologia di articoli, quasi archeologica, per me e persone come me.
        Personalmente mi piace molto scoprire dettagli di cose che ho vissuto ma che non conoscevo fino in fondo.
        Ha un sapore del tutto particolare e piacevole.
        In realtà però, se dovessi anche tu essere almeno un pò simile a come sono io, credo che tu lo faccia (documentarti, analizzare e poi soprattutto scrivere) per una ragione più profonda.
        Ti farò un esempio personale collegato a tutto quanto detto finora, e spero avrai la pazienza di seguirmi fino alla fine.
        IL C64 lo potetti vedere per la prima volta non alla GBC ma da un distributore esclusivo di zona di macchine fotocopiatrici e stampanti della Canon (che, che col senno di poi, capisco, giustamente voleva diversificare) e di cui mio padre era buon cliente ed in buoni rapporti con entrambi i titolari.
        Fu uno dei due titolari a parlarmene.
        Quel giorno avevo accompagnato mio padre a fare un servizio, era la fine dell’estate o giù di lì, avevo 14 anni, il sole era ancora bello caldo e splendente nel cielo, il C64 era appena stato annunciato in Italia (non lo sapevo) e lui (il titolare) ce ne parlava come se fosse l’ottava meraviglia mentre le mie orecchie si facevano sempre più grandi e come delle specie di girasoli si orientavano verso il nostro interlocutore.
        Diceva che volevano venderlo anche loro (parlava di un milione di lire ad unità!!!) e volevano vedere che effetto avrebbe fatto su di un appassionato (questo l’ho capito molto ma molto dopo).
        Dopo averne sentito parlare in quel modo sbavavo all’idea di provarlo e, come se costituisse un plus per il titolare, sapevo già programmare piuttosto bene in BASIC ed assembly 6502.
        Infatti mio padre, un paio di anni prima, dando ascolto alle preoccupazioni di mia madre e per farmi uscire dalla GBC dove ormai vivevo svariati pomeriggi alla settimana, mi aveva regalato, invece dell’agognato Vic 20!, un computer a basso costo, di cui immagino non avrai mai sentito parlare in vita tua: lo Shine della Elettronica Veneta (trovi al massimo una citazione qui: http://www.centrolorenzon.it/azienda/chi-siamo ).
        Se non ricordo male mio padre lo aveva recuperato usato ad una fiera dei radioamatori (pagandolo probabilmente due soldi), alla quale io avrei ucciso per poter andare, ma non ero stato portato (non che mio padre fosse cattivo, era però un uomo molto distratto).
        Lo Shine, basato su 6502, includeva uno Shine-BASIC e qualche modesta capacità grafica e sonora (comando BEEP con frequenza e durata in ms che bloccava tutto finchè non finiva di suonare!) ma che, fortuna delle fortune, era soprattutto dotatissimo di softwares e periferiche!!!
        Infatti non veniva dato in bundle alcun software (a meno che non si consideri software il cavo di alimentazione) e, come potrai ben immaginare, per esso non esisteva proprio alcun pacchetto software al mondo!
        Figurarsi dei giochi!!!
        In più non veniva citato in alcuna delle riviste italiane dove di solito comparivano listati per programmi/giochi vari che potevi batterti sul tuo computer e poi salvare e giocare od usare (proprio come facevano alcuni brufolosi che venivano in GBC: li battevano furiosamente copiando dalla rivista e poi estasiati usavano per un po’ il risultato della loro fatica; allo spegnimento addio a tutto perchè, di solito, non avevano con se nemmeno il supporto su cui poter salvare).
        Ora io non voglio fare la parte del Calimero, però andavo a casa di un mio amico che aveva il Vic 20 e oltre ad accenderlo ci sapeva fare poco se non far partire qualche gioco da qualche cassetta.
        Un altro aveva una consolle Atari e andavamo a casa sua per giocare al Donkey Kong, etc etc.
        Io invece… Mah!
        Ma tornando allo Shine, completiamone le meravigliose caratteristiche: nudo e crudo, il registratore ce lo dovevi mettere tu (il mio, mono, regalo delle elementari e compagno di tante battaglie, e che funziona ancora oggi!) e come monitor ebbi in dotazione un vecchio televisore 14 pollici in B/N che mio padre mi aveva gentilmente riciclato da non so dove (la solita fiera?), tramite presa TV (come del resto era d’uso all’epoca).
        Su questo stesso catorcio di TV avrei un giorno, e per diversi anni a venire, collegato anche il C64 senza poterne quasi mai vedere i colori, e dico quasi non perchè alle volte per magia il televisore in B/N, impietosito, li riuscisse a visualizzare ma perchè, in casi rari, con un blitz, sequestravo la TV a colori di casa, e finalmente potevo dar sfogo a tutta la mia repressa e frustrata libidine!!!
        All’accensione dello Shine, a parte il messaggio che diceva che c’erano poco meno di 16K liberi (eh si un botto in più rispetto al Vic 20 o al misero K del Sinclair ZX 80, non lo Spectrum però eh!), ti ritrovavi con un bel prompt “Ready”, un bel cursore lampeggiante accanto e… il nulla più assoluto.
        Non mi persi d’animo, ormai ce lo avevo, si non era proprio ciò che avrei voluto ma mi dissi “Ok, e me lo scrivo da solo un gioco e che cazzo!”.
        Dopo aver padroneggiato rapidamente il suo BASIC decisi di voler scrivere in assembly (come i professionisti!) dato poi che aveva un comando CALL(indirizzo) che era fatto apposta, come il SYS del Vic 20 e che poi ci sarebbe stato un giorno anche per il C64.
        Da un annetto a quella parte vivevo, tipo copertina di Linus, con accanto il libro “Programmazione del 6502” che trovi in antiquariato, oltre che a casa mia ancora ben conservato, e qui https://www.anobii.com/books/programmazione_del_6502/0141cb67f1f9f66e53 e che aveva sostituito un oscuro blocco di fotocopie sul 6502 che mio padre, su mia accorata richiesta, mi aveva recuperato sempre chissà da chi e da dove ma che ormai stava andando a pezzi per l’uso quotidiano che ne facevo.
        Breve parentesi: ti do una chicca che potrebbe interessarti, non ho mai fatto il fermo immagine per controllare, ed appare molto velocemente, ma sin dalla prima volta che vidi al cinema Terminator (esperienza fondamentale di vita), ai bei tempi che furono, sono praticamente sicuro che almeno in alcuni di quegli spezzoni in cui si vede su sfondo rosso quello che vede il terminator, le istruzioni (i listati) che appaiono in bianco sono assembly 6502, ossia sono disassemblati di codice macchina 6502 di porzioni di codice presi da chissà dove.
        Per dirla tutta anche un altro libro era allo stesso tempo mio fedele compagno: il “Logic DataBook” della National Semiconductor (regalatomi con le migliori intenzioni da mio padre per Natale sempre su mia richiesta), altro antiquariato che trovi qui https://www.ebay.com/itm/1981-National-Semiconductor-Logic-Data-Book-/362660983012 (e che tuo fratello forse avrà avuto modo di maneggiare in quegli anni o comunque una sua versione successiva); ma questa seppur parte della stessa storia, è comunque un’altra storia e bella lunga pure, per cui te la risparmio (io i componenti elettronici li compravo alla Melchioni Elettronica, non alla GBC, perchè incredibilmente sulla microelettronica era rifornita meglio e con commessi al banco molto più competenti).
        Questi due libri, onnipresenti, più il fatto che vivevo dalle elementari di letture di Urania, rigorosamente rubati, ehm presi in prestito, dal comodino di mio padre, turbavano non poco i miei (mio padre cominciava a pentirsene di quell’incauto regalo).
        Infatti mi avrebbero voluto vedere leggere e giocare con qualcos’altro di più normale per la mia età, e non è che fossero poi così riservati da tenerselo per loro stessi…
        Niente paura, alla fine ero comunque un ragazzino normale che usciva, si sfrenava fino alla sfinimento, giocava in strada, guardava i cartoni animati in TV e che aveva tanti amici.
        Tornando allo Shine ed alle mie voglie di assembly (la roba di quelli bravi, di quelli che sanno veramente programmare, avevo sentito dire, e che io potevo essere da meno?!): dapprima mi scrivevo qualche cosa di semplice in (codice) mnemonico sulla carta, poi traducevo da esadecimale in decimale e quindi, ottenevo una bella sequenza di numeretti tra 0 e 255 che rappresentava il codice macchina del programmino scritto sulla carta (e a volte beccavo mia madre a guardarmi e guardare quei fogli come se fossi matto, con in faccia stampato uno sguardo sconsolato, un po’ come a dire: ma non mi poteva capitare un figlio che giocava ai soldatini e a subbuteo come gli altri e suo fratello per esempio?!).
        A quel punto, tramite i famigerati comandi basic DATA e READ (mai usati?), con un bel ciclo FOR ed una POKE scrivevi quei bytes, uno alla volta, in una zona di memoria libera e finalmente concludevi il tutto con una bella CALL all’indirizzo della prima istruzione e che finalmente lanciava la tua “meraviglia” (perchè farsi di droghe quando ci si può sballare molto più a buon mercato?!).
        Gasato dai successi che man mano ottenevo, cominciai a scrivere cose sempre più lunghe e complesse, sinchè, giocoforza, si presentò la necessità vera e propria di usare un programma di Assembler, come quello che avevo potuto usare sul PET ad esempio.
        Si quel PET CBM 4032, tra l’altro, con il suo font di caratteri (con stile teminale così tipico anni 70 probabilmente) ed i suoi fosfori verdi, che da quando avevo visto al cinema Alien, mi faceva sempre un pò sentire come essere sulla Nostromo (ci mancava solo quel suono che si sentiva mentre il computer della compagnia, con un po di ritrosia, ti spiegava che ce l’avevi nel culo); che gran figata.
        La svolta per me fù quella, una di quelle che segnano per sempre la vita, come in Sliding Doors: decisi che, visto che non esisteva un programma di Assembler per lo Shine o comunque non era alla mia portata (facevo le medie, e l’idea di contattare il produttore, come soluzione più pratica e possibile, non mi passava neanche per la capa), decisi dicevo, di scrivermelo da solo.
        E vuoi mettere l’arrapamento che questa sfida poteva rappresentare per un ragazzino, con tutti quei films pieni di geni informatici e via discorrendo?!
        Te la faccio breve per non annoiarti: avrei potuto scriverne una buona parte in BASIC (ma un’altra doveva per forza essere in assembly, la gestione dei breakpoints e il fetch dello stato dei registri ad es. necessitavano la gestione degli interrupts, etc.) ma vuoi mettere rispetto al farlo tutto in assembly stesso?
        L’idea di base era di replicare il programma di Assembler che tante volte avevo usato sul PET.
        Cominciai quindi usando la tecnica di prima (della scrittura su carta e delle DATA e le READ) e mi scrissi prima il comando M per visualizzare un range di memoria in esadecimale ed in ASCII.
        Questo mi serviva per partire con qualcosa di semplice ed al tempo stesso per debuggare quello che avrei fatto dopo, ossia il vero e proprio primo comando di un assemblatore, quello per assemblare: A.
        Ad esempio: A 1000 LDA #$4F, ossia assembla all’indirizzo decimale 4096 di memoria il codice operativo della istruzione mnemonica LDA, LoaD into Accumulator, che carica il valore, in modalità immediata, hex $4F, ossia 79 decimale, nel registro Accumulatore della CPU.
        Con M verificavo che a partire da quell’indirizzo ci fossero i (2 nell’es.) bytes giusti che A aveva scritto, ossia che A aveva assemblato (cioè tradotto) correttamente l’istruzione mnemonica che gli era stata data in pasto insieme con i suoi eventuali operandi e la modalità di indirizzamento.
        A questo punto il massimo dell’eccitazione era che potevo usare già quell’abbozzo di programma Assembler che avevo scritto per scrivere con esso il resto dell’Assemblatore stesso e direttamente in assenbly, ossia addio carta, traduzione da hex a dec, addio numeretti e BASIC con le DATA, la READ e tutto il resto; al prompt una semplice CALL all’indirizzo del mio work in progress Assembler e potevo continuare a scrivere, e provare!, con esso stesso, e man mano, le sue parti mancanti fino a completarlo!
        Una bella soddisfazione già per un adulto, ma per un ragazzino una cosa che che non ti dico.
        E così via, lo ho completato passando al comando D (per disassemblare, molto più complesso di A), e poi comandi per mettere i breakpoints (ci dovetti pensare un bel pò per capire come fare ad implementarli), vedere lo stato dei registri della CPU e infine poter lanciare i softwares adesso scritti con il *mio* (capito: mio!!!) assembler.
        Mi impegnò per dei mesi ed i miei ottennero quello che volevano, ossia che stavo per lo più a casa e che alla GBC ormai ci andavo solo ogni tanto, per salutare il responsabile del reparto di microlettronica, gli amici che mi ero fatto lì e poter mettere le mani su qualcosa di più “cristiano”.
        Ma il punto è che, non solo in quel modo imparai davvero a programmare qualcosa di serio, con uno scopo più ampio e non fine ad una piccola gratificazione immediata, ma detti veramente sfogo a quel bisogno che avevo di programmare, una cosa che non capivo ma che sentivo di dover fare perchè mi affascinava in se stessa come la risoluzione di un rompicapo: trovare la sequenza corretta di operazioni per raggiungere un certo scopo.
        E con quell’assembler che realizzai il mio primo prototipo di gioco, sullo Shine: un labirinto a caratteri ASCII in cui, ispirandomi a Lady Bug, che mi piaceva tantissimo, c’era un mostro che ti inseguiva mentre tu mangiavi i puntini e potevi aprire e chiudere della barriere e sfruttare dei bonus.
        La difficoltà più grande fu di inventarmi una logica (quella che oggi nel gaming chiamano AI) con la quale fare in modo che il mostro non fosse ne troppo intelligente (ossia da puntare direttamente a te, come se dotato di un radar sovrannaturale che poteva vedere attraverso i muri) ne troppo idiota da muoversi in modo totalmente casuale rimanendo magari a 10Km da te mentre tu facevi i tuoi comodi nel quadro e lo potevi facilmente completare.
        Venne fuori una cosetta discreta per essere un prototipo.
        Contavo poi di finalizzare il gioco portandolo in grafica copiando i mostri di Lady Bug che mi affascinavano un sacco.
        Di quest’ultima ne feci solo una parte, poi lasciai perdere perchè sembrava una cosa fine a se stessa; non avevo nessuno con cui condividere questa avventura se non un altro mio gradissimo amico con cui giocavo a Lady Bug.
        Ok, sono lungo, prolisso e forse palloso, lo so, ma questo era lo spirito di quei tempi, quello che poi ha dato origine, almeno per me, a tutto quello di cui ti ho scritto nel commento precedente: la passione per qualcosa, una cosa irrefrenabile che può anche essere fine a se stessa ma che ti dà delle emozioni e delle soddisfazioni inarrivabili in altri modi.
        Ti apro una parentesi comica sul mio primissimo incontro col C64: uno dei titolari che ti dicevo, volle (mi concesse?) che lo provassi, il C64, (per essere gentile con mio padre? non so) e in uno stanzone del piano interrato dove avevano il deposito, su di un banchetto, lo fece montare appositamente per me da un suo addetto.
        Ne avevano avuti, in anteprima, solo 2 esemplari e così potetti ammirare il C64 (in anteprima alla vendita, almeno di quel distributore Canon, incredibile no?) in tutta la sua magnificenza e gloria, su di una TV a colori e con in dotazione un manuale utente.
        Qui si parlava di una certa cosa chiamata “Sprites” (in italiano il manuale li definiva “Fantasmini”) e c’era un listato lunghetto (zeppo delle solita DATA con pacchi di numeretti, erano la grafica byte a byte) per dimostrarne la potenza e la versatilità.
        Ovviamente batterlo fu la prima cosa che feci.
        Al run si vedeva una mongolfiera navigare placidamente su di un cielo stellato, dei fuochi di artificio di vari colori esplodere in aria e credo, non ne sono sicuro però, che si sentisse anche il suono delle esplosioni dei fuochi d’artificio.
        Io non l’avevo mai vista una cosa così su di un computer se non in sala giochi sui coin-op.
        Rimasi a bocca aperta a fissare lo schermo per un bel po’.
        Poi premetti il tasto break per interrompere il programma e tornò la schermata testuale con quanto scritto fino al momento del run.
        Piccolo problema, la mongofiera era ancora lì, sovraimpressa su tutto.
        Non importa cosa facessi, pulissi lo schermo, premessi ancora break, scrivessi qualcosa: si stagliava in primo piano su tutto, con le normali scritte tesuali sotto.
        Sudai freddo, pensavo di averlo rotto (un milioooneeeee!!!), avevo paura che da un momento all’altro entrasse qualcuno e lo vedesse così e mi incolpasse di aver rovinato quel computer che era ancora nuovo, appena tirato fuori dalla sua scatola.
        Ero disperato, ah ah ah.
        Alla fine, dopo un altro paio di minuti di svariati tentativi frenetici, lo spensi e poi, timoroso, lo riaccesi: tutto normale.
        Tirai un sospirone di sollievo, chiamai il titolare in modo che vedesse che era tutto ok e poi gli dissi che mi era piaciuto davvero molto.
        Mi fece parecchie domande prima di spegnerlo definitivamente e riporlo.
        Andai via con un senso di ansia che aveva completamente cancellato la mia euforia.
        Lessi in sequito a riguardo degli sprites su di una rivista, capì cos’erano e che se non facevi una POKE in un certo registro video non li disabilitavi (facendoli finalmente scomparire) e capì cosa era successo quel giorno: avevo interrotto a metà l’esecuzione del programma e lo sprite della mongolfiera era semplicemente rimasto lì in attesa di una POKE che lo spegnesse (o di un bel reset, spegnendo e riaccendendo il 64 per esempio!).
        Passata la paura, e comprese le potenzialità cominciai a chiedere il C64 ai miei, ma dovetti aspettare davvero parecchio e questa è ancora un’altra storia.
        In conclusione di tutto questo romanzo, caro Simone, quello che volevo dirti è che, forse mi sbaglio ma credo che tu scriva si per persone come me e perchè queste persone c’erano e possono apprezzare e condividere un certo spirito ma soprattutto, e prima ancora, sempre secondo me, tu scrivi per te stesso, perchè ne hai bisogno, perchè ti piace e sei capace di scrivere e perchè queste sono le cose che ti piacciono e di cui senti necessità di parlare e comunicare con gli altri, esattamente come io programmo qualunque cosa mi chiedano di fare ma che se potessi farei solo giochi perchè quello è ciò che mi piace fare di più.
        Spero che non ti farai abbattere dall’amarezza del confronto col mondo e che così continuerai a fare ciò che ti piace e ciò che viene bene ed è molto apprezzato da me e altre persone come me a cui piace questo mondo di cose retro (gaming o meno che siano) o contemporanee di cui tu scrivi così appassionatamente.
        Io non posso che apprezzare quello che fai ed i tuoi sforzi, anche perchè hai un bel talento per la scrittura, un tuo stile è accattivante e hai un tuo modo personale di esporre le tue idee, le tue analisi e congetture, ed è un modo che prende.
        Penso che in fondo lo apprezzino anche altri, forse anche chi passa soltanto e guarda e/o si limita a lasciare un like.
        Buon divertimento.

        • Simone Guidi

          Sai Vik, leggendo questo tuo lungo commento, man mano che scorrevo le righe, nelle mia mente visualizzavo l’immagine di Jeff Minter.
          Uno dei tanti miei progetti avviati ( e poi messi in stand-by per collasso mentale) è stato quello di tradurre in italiano “The History of Llamasoft”, il libro che Minter ha messo a disposizione in libero scarico sul sito di Llamasoft, appunto.
          Beh, sapendo che il prossimo anno sarebbe uscita una pubblicazione video sulla storia di questo celebre programmatore e la sua software house(vedi qui: https://www.heartofneon.com/) mi ero ripromesso di dare il mio contributo alla celebrazione del mito traducendo il suo libro nella lingua di Dante.
          Cominciando a lavorarci mi sono presto accorto che, più che una storia della costituzione della società, era una vera e proprio biografia di Jeff Minter! E del resto come sarebbe potuto essere altrimenti? È lui il fulcro di tutto! Del resto anche di Ivan Zorzin, no? Beh, ti dicevo che il libro è fondamentalmente una biografia dell’uomo Minter a partire dai tempi della scuola superiore in avanti. Racconta del suo primo approccio con l’informatica, della difficoltà a reperire fonti a cui far riferimento e testi su cui studiare ( quando hai scritto del tuo pacco di fotocopie logore il parallelismo è scattato immediatamente). La difficoltà anche ad avere INSEGNANTI competenti, pensa un po’… e, ovviamente, i suoi primi approcci con il Commodore PET, suo primo computer in assoluto che poteva usare solo a scuola, condividendolo con il suo circolino dei nerd seguendo delle rigide turnazioni. Ecco. Adesso mi fermo qui e ti incollo una parte del libro che ho già tradotto ma che racconta, secondo me, esattamente le stesse esperienze ed emozioni che forse hai provato anche tu. Vedi un po’ se trovi interessante quanto scritto qui sotto:

          ‘Raptured’ Rawlinson era il guru dei geek, e mi aveva parlato di alcuni strani comandi BASIC chiamati PEEK e POKE. All’inizio questi comandi sembravano completamente misteriosi perché non avevo idea di cosa facessero in realtà. Sapevo che era qualcosa che aveva a che fare con l’accesso a parti della memoria interna della macchina, e li avevamo usati principalmente per cercare di far accadere cose strane attraverso la modifica dei valori in una posizione misteriosamente chiamata “zero page”.
          Capimmo dalle riviste che il BASIC memorizzava alcune variabili di lavoro in questa area di “zero page”, giocherellando e cambiando quei valori potevi fare cose stranissime come accelerare il flash rate del cursore fino a farlo sfocare, o ridurre la ripetizione automatica della tastiera in modo che il tocco di un tasto poteva vomitare sullo schermo un sacco di caratteri tutti in una volta. A volte, incasinare questi valori non produceva niente e a volte faceva crashare la macchina in malo modo. Non posso dire di aver usato PEEK e POKE sulla zero page per un qualche grande fine, e nemmeno sapendo cosa stavo facendo – era tutto molto simile al voodoo … Dovevi POKEGGIARE un po’ e vedere cosa sarebbe successo senza veramente capire il perché.
          I problemi con i miei giochi stavano cominciando anche a irritarmi. Stavo lavorando a un gioco in cui volevo che ci fosse un qualche tipo di un ambiente strutturato, tipo un labirinto in cui il giocatore poteva muoversi, e stava diventando tutto molto stupido – stavo considerando il dimensionamento di un grosso array grande quanto lo schermo, e per ogni carattere che stampavo sullo schermo memorizzavo un valore corrispondente nel mio grande array per il controllo di collisione. Il PET BASIC ti consente di inserire un carattere in qualsiasi posizione dello schermo, ma non c’era alcun comando per farti vedere come sarebbe stato in quella posizione. Da qui il mio grande, goffo, ingombrante array, che era tanto inelegante da usare proprio come sembrava. Mi stavo stancando … E poi, Ho pensato: «Beh … Il sistema ha una sua memoria – lo so per via dell’uso di PEEK e POKE. Quindi, da qualche parte deve avere memoria per le cose che vanno sullo schermo… ».
          Mi sono seduto e ho cominciato a cercare quella memoria usando il comando POKE. Ci sono voluti due parametri (POKE X, Y) e armeggiando con le variabili BASIC seppi che ‘X’ era l’indirizzo di memoria della variabile di sistema e ‘Y’ era il valore che si desiderava memorizzare a quell’indirizzo. Sapevo che c’erano 8K di memoria da qualche parte nel PET, e mi immaginai che un po’ di quella memoria dovesse essere usata per contenere una copia di ciò che veniva visualizzato sullo schermo.
          POKEGGIA qui, POKEGGIA là – sulle prime a caso, ed eventualmente poi più sistematicamente, tentavo di scrivere dei valori in locazioni di memoria che stavano entro i 1024 byte, dato che mi sembrava logico che la memoria di sistema potesse essere stata impostata in base alla dimensione di un blocco di memoria da 1K.
          Alla fine digitai:

          POKE 32768,0

          … e un simbolo ‘@’ apparve in alto a sinistra sullo schermo.
          Per confermare che avevo trovato quello che pensavo di aver trovato, digitai:

          FOR X = 0 TO 255: POKE 32768 + X, X: NEXT

          … e l’intero set di caratteri PET apparve chiaramente in ordine nella parte superiore dello schermo, senza che fosse necessaria una sola istruzione di “PRINT”.
          Avevo scoperto l’esistenza della RAM dello schermo, e così facendo mossi il mio primo passo verso una reale comprensione di come funzionava davvero la macchina, e lontano dalle limitazioni del BASIC.

          Ti ringrazio per i tuo commenti, Vik. Sono sempre precisi e, soprattutto, sentiti. 🙂

          • vik

            Ciao Simo, sono io che ringrazio te.
            Non conoscevo il libro di Minter e ho avuto solo poco più di un’oretta per leggere per cui sono arrivato solo al quarto capitolo (mi ha preso un botto) ed effettivamente ci trovo delle similitudini per certi versi impressionanti.
            Ci sono però anche delle differenze importanti nel modo di procedere all’apprendimento.
            Rispetto a lui ho avuto in più (e non è poco!) la fortuna di conoscere già a circa 11 anni buona parte del programma di elettronica digitale dei 3 anni finali di un istututo tecnico.
            E’ una lunga storia e te la faccio più breve che posso: ossessionato dall’elettricità e poi dall’elettronica sin letteralmente da prima dell’asilo (non ci crederesti ma conoscevo già allora i circuiti in serie e parallelo con motori e lampadine) ho poi cominciato a 8 anni a montare,smontare e modificare circuiti grazie una scatola di montaggio trovata tra le cose di mio padre e che era una specie di “meccano” dell’elettronica.
            Constava di, credo, 21 schemi, tra cui anche una semplice radio e un amplificatore con microfono e un interruttore crepuscolare con fotoresistenza.
            La cosa bella è che era diretta ad un pubblico di adoloscenti e includeva un manuale di una 50ina di pagine che prima dava una introduzione alla corrente elettrica, spiegando con parole semplici e disegni comprensibil il flusso di elettroni che la costituiva a partire dalle batterie e poi man mano i vari componenti elettronici come i resistori, la legge di ohm, i condensatori e gli induttori fino al transistor etc, per poi passare alla descrizione del funzionamento di ognuno di quegli schemi da realizzare.
            Avrò montato quei 21 schemi almeno un paio di centinaia di volte sino a rovinarne alcuni dei delicati componenti elettronici (rotti per consunzione i reofori di uno dei 2 transistors in dotazione risultato poi impossibile da sostituire in quanto degli anni 60 e non più in commercio, l’equivalente purtroppo non andava bene e causava malfunzionamenti negli schemi in cui si trovava).
            Sapevo leggere il codice dei colori delle resistenza, le sigle e la polarità dei condensatori, etc.; fu una grandissima scuola per me.
            M la vera cosa bella è che non so perchè ma mio padre, in seconda media, di punto in bianco, mi fece uno dei regali più grossi della mia vita.
            Un pomeriggio, senza dirmi prima niente, mi portò dal suo collega dell’ITIS (dove anche mio padre insegnava), il prof. Ettore Panella (che ha scritto anche alcuni libri di elettronica ed elettrotecnica) e mi disse che mi avrebbe fatto fare un corso di elettronica digitale con lui.
            Io non credevo alle mie orecchie!
            In quattro mesi, coprimmo tutta la teoria delle reti logiche combinatorie, reti logiche sequenziali, sintesi e analisi delle stesse con minimizzazione di entrambe e diagrammi di timings, fino ad applicazioni specifiche come circuiti bistabili, antirimbalzo, multiplexers, demultiplexers, encoders, decoders, e concludemmo con contatori a modulo n, registri e ram statiche.
            Capì tutto, non ci fu un solo concetto che mi fosse oscuro, il professore era bravissimo (andavo di pomeriggio 3 volte la settimana dopo la scuola e compatibilmente con i compiti) ed in parallelo alla teoria che mi faceva studiare e di cui dovevo svolgere gli esercizi per la volta dopo mi fece fare anche la pratica: protoboard, pile da 4,5 volts e un sacco di circuiti integrati.
            Alla fine ero in grado di progettare autonomamamente circuiti di gitali di discreta complessità.
            Lui era contentissimo di me e diceva che ero l’esempio lampante che chi vuole imparare lo può fare indipendentemente dall’età e si doleva di quegli “scapocchioni” dei sui alunni, che benchè più grandi e con 3 anni (e non pochi mesi) a disposizione riuscivano,alle volte, non tutti, a rimanere delle capre.
            Dopo il corso mi comprai il Bug Book 3, da cui imparai a interfacciare l’8080A (predecessore dello Z80 ed in qualche modo anche dell’8086 da cui poi sono venuti fuori tutti i PC Intel).
            Ispirandomi ad esso progettai e realizzai una scheda completa basata su 8080A, 8224 (clock a doppia fase) , 8111 (ram 256x4Bit) una coppia per fare 256x8Bit (cioè una memoria di 256bytes!!!) e 8216 come bus-controller, display e tastierino recuperati da una vecchia calcolatrice.
            Lì scrissi i miei primissimi micro programmini assembly e poi passai all’assembly di un sistema serio come il PET di cui ti dicevo.
            Scusa la storia della mia vita, però questo era per dire che quando approcciai all’assembly lo feci con una visione dell’hardware precisa al bit ed al segnale passante tar una porta logica e l’altra, per cui per me non fu un andare a casaccio o uno scoprire l’assembly in un secondo momento come è stato per Minter.
            Fu una cosa naturale.
            Il sentirne parlare successivamente dagli altri come di una specie di magia nera, la roba tosta dei professionisti mi stupì inizialmente e mi fece gasare poi dandomi la spinta a volerlo imparare con i controcazzi.
            Per m eera ovvio che fosse il linguaggio più veloce possibile, oltre quello c’era solo l’hardware cablato dedicato, come i tanti progettini che mi ero fatto prima.
            Ma l’idea di poter far funzionare l’hardware senza dover smontare e ricablare tutto o riprogettare l’intero circuito (o scheda) fu la cosa che mi affascinò e mi portò poi completamente verso la programmazione.
            Le PEEK e le POKE, se avevo un minimo di datasheet a disposizione, e per il 64 c’earano eccome, non erano fatte a casaccio, erano completamente ragionate.
            Sullo Shine, dove non c’era alcuna documentazione, ho fatto all’incirca le stesse cosae che descrive Minter: ma ero obbligato ad andare a casaccio, sebbene avessi un’idea piuttosto chiara, a differenza di lui, di quali fossero i componenti che c’era all’incirca dentro, per cui la ricerca della memoria video era fatta con la certezza di trovarla.
            Analogamente il sovrascrivere il vettore dell’IRQ del 6502 (la JMP indiretta la servizio di scansione della tastiera e dell’orologio) era altrettanto una cosa ovvia (ci vole solo il tempo per fare quello che oggi si chiama reverse-enginering).
            Per concludere ho continuato in parallelo con l’hardware fino ai 23/23 anni.
            Peccato poi averlo lasciato completamente.
            Quando vedo quello che c’è in giro oggi e cosa si può fare mi viene la febbre, ma non ce n’è il tempo purtroppo.
            Un giorno chissà.
            Ti faro sapere del libro di Minter, è una figata.
            Penso però che sia per pochi.
            Mi rendo conto che per me va giù liscio perchè praticamente descrive cose e situazioni che conosco benissimo, ma che devono sembrare ostrogoto antico a qualcuno che è già solo di un paio di decenni più giovane.

  2. Lorenzo

    Anche io ho avuto il C64 (prima il Vic20 e poi l’Amiga), e anche io non ricordo di aver avuto questo gioco. Posso dirti che quello che ricordo con più affetto è “Snokie”, quello col pinguino. Anche io programmavo qualcosina in BASIC ma nulla di più. Riuscii però a craccare la mia copia originale di Wonderboy… in pratica c’era un loader (che non si riusciva a copiare), che a sua volta caricava il file del gioco (ma la directory del floppy era nascosta). Bastava caricare (e copiare) direttamente questo file e il gioco era fatto… strano fosse così semplice!
    Concludo dicendo che i tuoi post sul retrogaming sono molto interessanti. Anche se non gioco più dagli anni ’90, mi piace leggere questi retroscena, foss’anche per meri motivi nostalgici. E poi sei uno dei pochi che scrive di cose degli anni ’80 e che in quegli anni c’era davvero 😀

    • Simone Guidi

      Oddio, Lorenzo, cosa mi hai fatto tornare in mente! Anch’io ho giocato a Snokie nella sua versione per Atari 8bit! Madonna che ricordi. L’ho frustato per bene un bel po’ di tempo. Mamma mia che roba sei andato a ripescare… È roba da intenditori, da VERI intenditori, appunto, come hai detto tu, da gente che in quel momento c’era! 🙂
      Io a quel tempo ero un vero piratone, prima con L’Atari 800XL e poi con l’Amiga 600, ma ero più un contrabbandiere, più uno spacciatore di giochi piratati che un craccatore o un programmatore. L’equivalente di un senegalese sul mare con la roba taroccata che cerca lo scambio più che il guadagno. Guarda, tu non mi vedi ma mentre scrivo sto sorridendo. 🙂

  3. Luca

    Mai dai Simo non buttarti giù, che qualche pazzo che ti legge c’é sempre. A me piacciono quasi tutti i tuoi post e se a qulcuno non piacciono cavoli loro. Anche se non sono un fanatico del retrogaming comunque tutte queste notizie e vere e proprie chicche che ci sveli su un periodo ahimé ormai andato e sul mondo dell’informatica per me sono senza prezzo ( e mi raccomando che lo rimangano eh).

    • Simone Guidi

      Ma infatti il mio intento è proprio questo: documentare e indagare sui retroscena dei giochi fatti in quei tempi là. Se trovo qualcosa di singolare e memorabile, ecco che mi scatta di scriverci sopra un articolo in modo da potermi fissare bene le nozioni nella memoria proprio nell’atto di scriverle. La cosa curiosa, però, è che gli articoli sul retrogaming generalmente non vengono commentati quanto vengono “likati”. Sul blog ho dei pezzi che sforano tranquillamente i 100 like e non hanno neanche un commento, oppure, se ce l’hanno, a lasciarlo sono state persone che NON sono retrogamer nel vero senso del termine ma bensì curiosi o affezionati cinefili del blog. Quello che voglio dire è che questa particolare categoria che risponde al nome di “retrogamer” si palesa essere molto effimera e agisce sull’impeto dell’effetto nostalgia di un titolo o uno screenshot particolarmente evocativo, niente più, e io, sinceramente, preferisco avere un commento a un articolo piuttosto che 10 like, magari piovuti sopra da condivisioni a caso su facebook. Il commento sul blog mi permette di interagire, scambiare idee e opinioni. Di capire i miei pregi e, soprattutto, i miei difetti. Scusa se sono stato prolisso ma ci tenevo a chiarire questo punto.

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