TEAM17 or burst! LA STORIA DEL TEAM17

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Agli inizi degli anni ’90 era tutto meglio, ne ho le prove.
Una di queste prove, inconfutabili per altro, è che su Amiga giravano giochi come Superfrog e Alien Breed fatti da gente come il Team17. Gente cazzutissima che riversava i propri trip di droga in epopee fantasy/sci-fi atte a rendere i giovani dei prescelti della gloria. Il Team17, in particolare, nasceva da un’unione di intenti e idee che dettero origine a una serie di videogiochi meravigliosi. Giochi zeppi di alieni, streghe, robot, tette, pugni, guerrieri epici e astronavi alla deriva in galassie popolate… popolate dal disagio ( esattamente come certi gruppi facebook dedicati al retrogaming, per altro).
Quindi, tu, videogiocatore dell’epoca piazzato davanti alla tastiera, potevi avventurarti in mondi pazzeschi e inesplorati, e lo facevi attraverso i cervelli di gente che avrebbe influenzato il mondo dei videogiochi per i pochi anni che ancora restavano da vivere al tuo Amiga.
Questo era il Team17: una finestra sulla fantasia arrivata appena in tempo per fartela godere con un joystick in mano. Quelli del Team17 esistono ancora oggi, nel 2020, e adesso che vado sul loro sito non capisco bene dove siano andati a parare… Ma il fatto che si possano vantare di aver fatto un gioco che permetteva a due robot di frantumarsi a suon di calci volanti mi fa ben sperare.

 

Alla fine degli anni ’80, la storia dell’industria dei videogiochi è sostanzialmente un’epopea omerica.
Il decennio appena trascorso ha visto l’ascesa e la caduta di Atari, la società americana che definì i paradigmi del videogioco commerciale piazzando zillionate di console 2600 nei salotti di tutto il mondo, e stipulò accordi capestro multimilionari con Hollywood che contribuirono a farla crollare mentre i bardi cantavano le gesta di cartucce interrate nei deserti del Nuovo Messico.
Era arrivato dall’oriente il salvatore del mercato; e il suo nome? Nintendo. Un secolare produttore di carte da gioco il cui dipendente dagli occhi furbi, Shigeru Miyamoto, progetta giochi di tale straordinaria qualità da risollevare l’industria dall’orlo del baratro.
Nel Regno Unito poi, un gruppo di giovani nerd, tra cui David Braben, Peter Molyneux, Archer Maclean e Jeff Minter, sfuggono ai problemi che la loro madre patria sta affrontando (scioperi industriali, crisi economica, bombe dell’IRA, e guerra nelle Falkland) sfornando videogiochi programmati nelle loro camere da letto e conseguendo una fama inaspettata.
Insomma, erano accadute un sacco di cose negli anni ’80, ma adesso che siamo nel 1990 le cose cominciano a stabilizzarsi. La scena britannica dei videogiochi è definita da piccoli editori-sviluppatori che operano appoggiandosi ai negozi di computer o ai pochi nascenti centri commerciali. Registrano i loro giochi su dischi e cassette per poi rivenderli in autonomia a edicole e negozi. La 17-Bit Software è giusto uno di questi editori-sviluppatori, con sede in un ufficio angusto vicino al parco divertimenti di Wakefield, West Yorkshire, ed è fondata da un imprenditore locale, Michael Robinson, che gestisce anche una famosa catena di negozi di computer chiamati Microbyte. L’idea che anima l’azienda di Robinson è semplice quanto geniale: trovare la prossima generazione di talentuosi programmatori di videogiochi, metterli sotto contratto nello stesso modo in cui fanno le major discografiche con le loro band, e vendere i loro videogiochi nei negozi Microbyte. Più facile di così si muore.
Il diciannovenne Andreas Tadic, un programmatore per hobby proveniente da Olofstrom, in Svezia, è uno dei primi programmatori di videogiochi a comparire sul radar della 17-Bit. Tadic ha appena fatto uno sparatutto per Amiga chiamato HalfBright. (In seguito descriverà il suo stesso videogioco come “tecnicamente impressionante, ma di aspetto merdoso”.) Martyn Brown, che lavora per Microbyte, chiama Tadic e gli suggerisce di incontrare un giovane artista di nome Rico Holmes. I due diventano immediatamente amici e insieme a un altro programmatore svedese, Peter Tuleby, si autoproclamano Team 7. Il loro primo progetto è un gioco di corse ispirato a Miami Vice con un poliziotto che indossa occhiali da sole e veste alla moda. Si chiama Don Ferrari.

 

Miami Chase viene pubblicato come titolo budget da Codemasters, un’altra società software britannica sempre sul pezzo. Ottiene un bel 82% in una recensione molto positiva sulla famosa rivista di giochi britannica Amiga Power. Brown, che ha seguito attentamente lo sviluppo del gioco, suggerisce caldamente a Robinson che la 17-Bit software non solo deve continuare a pubblicare giochi, ma anche crearseli per conto proprio. Brown non la pensa male, in fondo ha persino un team di programmatori già pronto: Holmes come grafico, Tadic e Tuleby come programmatori, e se stesso come project manager. Robinson accetta la proposta e trasferisce Debbie Bestwick dalla sua posizione di direttore delle vendite di Microbyte al supporto commerciale per il nuovo progetto. Bestwick, sarebbe infine diventata il CEO della nuova società.
Adesso bastava solo trovare il nome giusto per iniziare l’avventura e alla fine, il gruppo decise di crearlo unendo il “Team 7” degli svedesi con “17-Bit” degli inglesi per creare il Team17. Venticinque anni dopo, Team17 è uno dei pochi editori britannici dell’epoca che ancora sopravvivere ed è riuscito a rimanere indipendente.
All’inizio di tutto i ruoli nel piccolo team venivano riassegnati cambiando di giorno in giorno. Alcuni giorni c’era da testare i giochi, altri da progettarli, altri ancora da esaminare i documenti legali. Il lavoro peggiore arrivava quando un nuovo gioco veniva finito. Si Doveva imballare fisicamente tutti i componenti: la confezione, i supporti, le istruzioni e così via. Faceva tutto parte della vita iniziale di una piccola software house dal budget limitato che di certo non nuotava nei soldi.

 

L’esperienza di vendita al dettaglio nei negozi Microbyte permette ai membri del Team 17 di sapere su quali generi di giochi vale la pena concentrarsi per vendere bene. Ma è il talento di Tadic e Holmes per grafica e programmazione a trasformare i concetti in realtà realmente vendibili. Molti dei primi giochi dell’azienda, come Full Contact , Alien Breed , Superfrog e Project-X , sono successi immediati. Nel giro di due anni, Team17 diventa il principale sviluppatore di giochi per Amiga. Non meno del 90 percento dei giochi dello studio raggiunge il primo posto nelle classifiche di vendita, mentre il loro catalogo rappresenta oltre il 50 percento di tutte le vendite di giochi sulla piattaforma.
Nel 1993, Team17 vince un Golden Joystick per “Software House of the Year”, che condivide con EA, una casa editrice americana molto più grande. Ma col successo arriva l’arroganza.
Come ho già detto, Il Team17 dei primi anni ’90 è inarrestabilei, ma ciò non impedisce alla società di sentirsi ferita da recensioni sfavorevoli, in particolare quelle pubblicate dalla rivista Amiga Power , una pubblicazione ben nota per le sue recensioni taglienti e penalizzanti. Stuart Campbell, vicedirettore della rivista per gran parte di quel periodo d’oro afferma che quando pubblicavano le recensioni dei loro giochi, dal Team17 arrivavano sempre commenti piccati. In particolare Overdrive , Project-X , F17 Challenge e Superfrog sono i titoli sui quali si manifesta l’acredine maggiore.
Team17, forse inebriato dal tanto successo conseguito in così poco tempo, ignora la regola secondo cui non si dovrebbe mai controbattere alla critica specializzata, e inizia a rivolgersi direttamente alla rivista Amiga Power nei suoi giochi. Ad esempio, non tutti sanno che se igiocatori digitano la parola “AMIGAPOWER” durante una partita ad Alien Breed 2, il gioco visualizza un messaggio critico riguardo alla politica di recensione della rivista. Nel gioco Arcade Pool, poi, i nemici del gioco hanno addirittura gli stessi nomi dei recensori di Amiga Power.

 

La situazione precipita nel 1995 dopo che la rivista recensisce i due titoli ATR e Kingpin, affibbiandogli uno score rispettivamente del 38% e del 47%.
Il Team17 minaccia una causa in tribunale chiedendo che le recensioni vengano ufficialmente smentite e che l’intero numero della rivista venga ritirato dalle edicole. Quando arriva la notifica delle richieste nella redazione di Amiga Power, viene accolta da una potentissima risata, così afferma Campbell.
Mentre la causa legale non arriva da nessuna parte, Team17 smette di inviare le copie dei giochi ad Amiga Power, intimando anche alle altre riviste appartenenti alla stessa casa editrice di non passargli le loro. La conseguenza è che per recensire i giochi, anche quelli davvero buoni come Alien Breed 3D, la redazione di Amiga Power è costretta ad andare nei negozi a comprare i titoli Team17 originali. Alla fine l’effetto non è niente di ché, le recensioni dei titoli Team17 appaiono su Amiga Power con un lieve ritardo rispetto alle altre riviste del settore ma sono sempre dello stesso tono.
Ovviamente Campbell nega l’ipotesi che Amiga Power ce l’avesse in particolare con il Team17 per qualsiasi motivo. Sostiene che il pensiero della redazione era quello comune a tanti altri produttori videoludici, ovvero, che un produttore può realizzare giochi geniali, giochi così e così, e anche alcuni titoli orribili.

Verso la metà degli anni ’90, però, il Team17 ha problemi ben più grandi della rivista Amiga Power. L’Amiga, l’hardware a cui l’azienda ha affidato la sua intera attività, è nei guai. Nel 1994, Commodore fallisce e il Team17 si era giusto imbarcato in un ambizioso progetto a lungo termine chiamato King of Thieves quando il mercato Amiga di fatto muore. Team17 è costretta a mollare King of Thieves in corso d’opera e cambiare rotta, altrimenti avrebbe affrontato il fallimento.

Fonti:

team17


Simone Guidi

Uomo di mare, scribacchino, padre. Arrivo su un cargo battente bandiera liberiana e mi installo nella cultura pop anni 80/90. Atariano della prima ora, tutte le notti guardo le stelle e aspetto che arrivino gli UFO.

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