Bruce Lee è l’Elvis del kung fu che ha avuto l’onere e l’onore di far conoscere per bene in occidente i film di arti marziali. È famoso soprattutto per quella manciata di film Hollywoodiani che ha interpretato da protagonista nei primi anni ’70 e, pochi lo sanno, per il serial “Kung Fu” trasmesso per la prima volta sulle TV americane dal 1972 al 1975. Si, lo so cosa state pensando. Il serial TV intitolato in modo molto poco creativo “Kung Fu” fu interpretato da David Carradine, non da Bruce Lee. Vero. Ma Carradine riuscì a soffiargli la parte anche se Lee aveva attivamente contribuito alla creazione dello show al solo scopo di recitarlo. Apparentemente nessuno aveva spiegato a Bruce che a quel tempo i cinesi erano considerati “troppo cinesi” per interpretare il ruolo del cinese.
Bruce Lee ha lasciato un’eredità culturale talmente vasta che è difficile perfino capire come analizzarla. Per questo motivo ho pensato di cominciare da quello che è l’inizio PER ME, ovvero, per uno che è nato agli inizi dei ’70 e che nel mezzo degli ’80 se lo è ritrovato davanti in televisione e, soprattutto, nella sua incarnazione a 8 bit: uno sprite con due braccia, due gambe, una testa, a torso nudo e vestito soltanto con una calzamaglia nera, il tutto molto pixelloso come d’uso all’epoca (questa espressione, “all’epoca”, fa terribilmente vecchio, non trovate?). Lui era l’eroe titolare dell’omonimo videogioco, Bruce Lee, edito da Datasoft nel 1984 per il mio Atari 800XL ( gioco poi convertito anche per Commodore 64, Spectrum e una miriade di altre piattaforme, naturalmente), e creato/programmato da Ron J. Fortier con il supporto del designer Kelly Day.
Lo so cosa state pensando, o voi giovinastri indisponenti con la vespa scoppiettante, la grafica probabilmente vi sembra troppo primitiva e foriera di un videogioco per voi ingiocabile ma, all’epoca ( e sono già due volte che sono costretto a usare questo sostantivo), gran parte del divertimento, lo so che è difficile da capire, stava nell’usare l’immaginazione. I videogiochi avevano storie semplici e rappresentazioni altrettanto semplici ma, per noi giovani videogiocatori, erano come portali attraverso i quali si accedeva ad interi mondi.
Troppo spesso, l’unica cosa che ci avrebbe aiutato a farci un’idea di come sarebbe potuto essere un videogioco era la scatola con la sua cover art. Figuratevi che cosa ne avremmo potuto capire noi, giovani virgulti italiani, che acquistavamo il software principalmente piratato, senza nient’altro a disposizione che un supporto magnetico e qualche screenshot malamente tradotto nella nostra lingua.
In questo caso, Bruce Lee aveva una copertina particolarmente dettagliata. Chiunque fosse stato questo cazzo di Bruce Lee, col suo sguardo intenso, i suoi muscoli definiti, e dal modo in cui stava dando calci ai ninja e ai tizi con la pelle verde, era chiaramente un duro. Anche il fondale con il tempio antico e le montagne erano particolarmente suggestivi. In qualità di ragazzino la cui unica precedente esposizione a qualsiasi tipo di cultura dei cinesi era stata la consapevolezza che esistevano i loro ristoranti ( ma non ci si andava a mangiare mai perché cucinavano i gatti!), queste immagini non solo accendevano l’immaginazione, le davano letteralmente fuoco.
Ispirato nel senso più libero possibile dalla leggendaria sequenza della risalita della pagoda in Game Of Death, il Bruce Lee del gioco deve farsi strada attraverso varie stanze fino a raggiungere un crudele mago e il suo immenso tesoro. A differenza di Game Of Death, però, non c’è alcuno sviluppo verticale. Bruce inizia in superficie e man mano che raccoglie lanterne ha la possibilità di avventurarsi verso il basso, aprendo porte segrete e guadagnandosi l’accesso a stanze ancor più complicate, zeppe di piattaforme e trappole mortali. Ci sono molti modi per morire e, una volta esaurite le cinque vite a disposizione, si deve ricominciare da capo.
Ci sono un paio di cattivi che inseguono Bruce Lee ovunque lui vada. Uno è un ninja nero senza nome che corre con una katana in mano, e l’altro è un lottatore di sumo di nome Yamo che ha la pelle verde in molte differenti versioni del gioco e nella copertina.
Certo, questi cattivi non sono molto minacciosi (anche se c’è una modalità a due giocatori in cui una seconda persona può giocare nei panni di Yamo). Secondo gli standard delle intelligenze artificiali del 1983 sono piuttosto all’avanguardia, ma non abbastanza da impedire che certe volte se ne vadano in giro a caso o intuiscano l’uso delle trappole disseminate nel gioco. Fortunatamente, sia Yamo che il Ninja rinascono pochi secondi dopo la loro morte, quindi rappresentano una minaccia principalmente per la loro tenacia.
LA GENESI
Nel 1983, Ron J. Fortier lavora come programmatore in Datasoft ed ha appena finito di convertire un classicone arcade senza tempo sulla piattaforma Atari a 8 bit: ZAXXON di SEGA.
Prima di ricevere il suo prossimo incarico, Ron decide di semplificarsi un po’ la vita preparando un rudimentale motore grafico, che magari un domani, non si sa mai, potrebbe tornare utile. In realtà Ron ci vede lungo perché, così facendo, qualunque altro incarico gli avessero affidato, lui avrebbe potuto sfruttare il suo motore adattandolo al nuovo progetto. Quello che mette a punto è un motore rudimentale dove nessun personaggio viene realmente definito, e così anche lo sfondo su cui si deve muovere. Più che un motore grafico vero e proprio è una specie di sandbox, ovvero, una zona franca, uno spazio informatico riservato dove lui può testare tutto il “puzzle and play” che gli passa per la mente e verificare se riesce tecnicamente a realizzarlo. Ecco. Quando la conversione di un videogioco dedicato ai film di Bruce Lee gli viene affidata, proprio quella sandbox ne diventa il nucleo centrale.
Fortier sa che quello di Bruce Lee diventerà un grande gioco. In quanto a iconicità, nessuna licenza in mano a Datasoft può competere con quella. Bruce Lee è un nome ben conosciuto nel mondo grazie alla popolarità dei suoi film e i giocatori avrebbero preteso un prodotto all’altezza delle loro aspettative.
Fattosi le ossa facendo funzionare ZAXXON sull’Atari 800, Ron J. Fortier è ormai un programmatore esperto. Sui computer di casa Atari è rimasto affascinato dal funzionamento dei processori ANTIC/GTIA/CTIA e da come riescono a gestire in maniera eccellente il rilevamento delle collisioni. Al tempo ha tra le mani un Apple II perfettamente funzionante e decide di sviluppare il gioco proprio lì sopra: «Un processore 6502 rimane sempre un processore 6502 qualsiasi macchina gli si possa costruire intorno», asserisce candidamente. Non essendo necessario nessun sistema operativo per programmare un 6502, sceglie di fare il suo gioco su un Apple II per poi portare il codice su Atari a 8 bit.
Ovviamente i film di Bruce Lee ispirano le meccaniche di base del progetto, mentre le limitazioni di memoria ( Bruce Lee deve stare nello spazio di 32Kb ) costringono Ron e il suo collega Kelly Day a concentrarsi su delle animazioni essenziali. Per Fortier il lavoro è facile. È un pesante fan dei film di arti marziali e individua subito i tre elementi base per mettere a punto un grande videogioco: 1) Esplorazione tramite piattaforme. 2) Velocità. 3) Sincronizzazione. Anche la grafica e i suoni non vengono trascurati per spingere i giocatori ad esplorare il gioco.
Kelly Day fa un gran lavoro e inserisce i personaggi facendo particolare attenzione a curare le loro mosse e le loro pose. Il Ninja e Yamo devono manifestare le stesse attitudini che avrebbero se fossero in un vero film di Kung Fu.
In quel periodo in Datasoft si cominciano ad implementare gli editor grafici. Solitamente il codice relativo alla grafica viene inserito a mano, ma vuoi la mole di lavoro, vuoi il fatto che i programmatori siano notoriamente scarsi quando si tratta di estetica artistica, si preferisce affidarsi a dei programmi appositi per settare uno standard ed evitare di digitare una sacco di righe in più. Il lavoro di Kelly Day sul gioco è incredibile. Sulle macchine Atari è padrone assoluto della gestione della grafica e crea degli sfondi da ammirare tutt’oggi.
Ron, intanto, programma l’inserimento dei personaggi e la loro interattività in ogni scenario. Ci sono degli schizzi di base che illustrano le stanze e gli oggetti in esse presenti. In base a quelli, Kelly crea gli sfondi e le trappole, poi passa il suo lavoro a Ron che ha il compito di animarle insieme allo stesso Bruce Lee (il “player”).
Bruce può sferrare calci volanti, dare pugni, appiattirsi sul pavimento e saltare in vari modi. Le animazioni che programma Ron conferisco vita a tutto quanto. Qualche volta gli sfondi cambiano a intervalli regolari e il player deve prendere il tempo giusto per poterli attraversare. L’idea è quella di avere una serie di ostacoli all’interno di ogni scenario in modo da poter accedere a quello successivo superandoli tutti.
L’intero team di sviluppo Datasoft risiede non più lontano di 15 metri l’uno dall’altro e giocano i nuovi livelli di Bruce Lee man mano che vengono messi a punto. Così è possibile capire subito quali tra essi raccolgono il maggior gradimento in modo da implementarne le caratteristiche in quelli successivi.
Interpellato sullo sviluppo di Bruce Lee, Ron Fortier ricorda bene quanto furono incredibilmente alti i numeri delle vendite della versione originale per Atari 8 bit e delle successive conversioni. Numeri che, ovviamente, impallidiscono di fronte a quelli che totalizzano i videogiochi moderni, ma che restano comunque notevoli se li si analizza nell’ottica della singola percentuale che i programmatori percepivano per ogni copia venduta.
«Con il senno di poi, adesso cosa cambieresti nel tuo gioco?» hanno chiesto a Ron J. Fortier. L’unico suo rimpianto è che al momento del rilascio del gioco, Pat Ketchum, il presidente di Datasoft, non rimane molto contento della versione finale e ne pretende una rielaborazione. A quel punto Ron non ha tanta voglia di perderci ulteriore tempo dietro e decide di riproporre la penultima versione, ed è proprio quella che viene accettata e pubblicata. In pratica, il videogioco di Bruce Lee così come lo conosciamo tutti non è quello definitivo, perfezionato e terminato dal suo autore, ma bensì una versione appena precedente, teoricamente ancora incompleta.
CONCLUSIONI
Bruce Lee potrebbe non essere il gioco più difficile della sua epoca, ma riesce a rimanere iscritto sul lato giusto della lavagna quando stimola il senso di sfida nel giocatore. Come molti videogiochi dei suoi tempi, non ha una narrativa intricata con una mappa enorme (ci sono solo 20 stanze da superare) ma per riuscire a padroneggiare ognuna di quelle stanze ci vuole un grande impegno. Ogni volta che lo giochi ti avvicini un pochino alla sua fine, ed è questo che ti tiene ancorato. C’è sempre l’intima convinzione che la prossima partita sarà quella in cui riuscirai a superare quella dannata stanza, quella in cui riuscirai a finirlo.
Sconfiggi anche tu il Mago del Fuoco. Trova la strada per la camera dei tesori. Non ci vuole molto, dopo tutto. Strappati via la camicia, stringiti la cravatta sulla fronte e preparati a combattere come Bruce Lee. Hiiiyaaa!