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La storia di BOULDER DASH e Peter Liepa

Reading Time: 13 minutes

boulder dash

 

Tracciate una linea sulla sabbia.

Ecco. Così. Bravi.
Adesso guardatela bene.

Immaginate che al di qua della linea ci siamo noi, nel 2023, con tanti videogiochi bellissimi e super performanti che girano su console cosmiche.
Al di là della linea, invece, c’è il mito, le prime generazioni di console e gli home computer, le sale giochi e i videogiochi dell’alba. Badate, di videogiochi bellissimi da quella parte ce ne sono tanti, è vero, ma non tantissimi, sono comunque più numerosi di quanto pensiate, eh?! 
Ecco. In questo episodio di Atariteca Podcast vi porto a fare un giro al di là di quella linea, dove ci sono quei videogiochi che hanno scritto i dogmi, definito i generi, incarnato intere epoche, plasmato generazioni e, insomma, tutte quelle cose che poi le potete rileggere su un libro abbastanza competente scritto da qualche programmatore il cui nome non ricorda più nessuno.
Oggi abbiamo un gran bel videogioco qui in Atariteca: Boulder Dash. È un’icona del suo tempo e c’è tanto da dire a riguardo: purtroppo non sarò breve. Mettetevi comodi e iniziamo.
Sigla.

Good Morning Atariteca, un bentornati dall’Omone nel vostro blister dei videogiochi. Un podcast di recensioni e retrogaming che ha di solito cadenza mensile perché vuolsì così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandate.
Lo so che vorreste Atariteca più spesso ma se ci pensate bene questa collocazione temporale ha quel certo fascino desolante tipico di una calamità incombente. Cioè, una volta al mese. Atariteca arriva a sbaragliare la scena del podcasting dei videogiochi una volta al mese. Secondo me, se lungo la linea gotica ci fosse stata la possibilità di ascoltare podcast, in attesa del nemico i tedeschi avrebbero ascoltato Atariteca, toh.
Di sicuro, però, i podcast non li ascoltava Peter Liepa. Programmatore di un classico senza tempo che svetta tra le prime posizioni delle librarie Commodore e Atari. Liepa può fregiarsi di quella sola e unica produzione prima di decidere spontaneamente di ritirarsi dal settore. Mi appresto quindi a raccontarvi la genesi del suo solitario primogenito: Boulder Dash; un gioco che quando inizia fa pressappoco così:

 

Ok, questa sembrerà storia antica alla maggior parte degli ascoltatori, ma Peter Liepa, programmatore canadese di cui internet si rifiuta caparbiamente di dirmi l’età, da bambino aspira da una parte a diventare animatore o designer di effetti speciali, e dall’altra diventare un fisico delle particelle. Accertato che a prescindere da tutti i nostri sforzi ci sfuggirà sempre il legame fra queste differenti figure professionali, al liceo Peter prende parte a un programma speciale che gli permette di fare uno stage di un’intera settimana presso il National Research Council of Canada .

Peter, ancora ignaro del suo vero destino, fa domanda per lavorare in un laboratorio di fisica, dove come prima cosa viene messo a usare un trapano a colonna per realizzare un pezzo di un apparato sperimentale. La cosa è abbastanza noiosa e durante quella fase, mentre è lì che trapana e sbuffa, immaginatevi la scena, trapana e sbuffa, trapana e sbuffa, trapana e sbuffa, alla fine ha una visione: è la nuova calcolatrice Wang del suo supervisore della quale, una volta provata, si innamora perdutamente.

Così, una volta tornato a casa passa l’intera serata scrivendo un programma per la calcolatrice con l’intenzione di provare a inserircelo il giorno dopo, e quando lo portano a visitare il centro di calcolo dell’istituto, e che doveva fare? Chiede di trascorrere lì il resto della settimana! Gli viene assegnato un cosiddetto terminale stupido, che a quei tempi era tipo una telescrivente ( forse un IBM Selectric ) collegato a un mainframe centrale e impara rapidamente a programmarlo. Dopo quell’unica settimana, però, per il resto del liceo il suo approfondimento del concetto di programmazione sarà solo tramite libri. A quei tempi, ataritecari miei, solo l’idea di poter accedere a dei personal computer era inimmaginabile. Era roba che si vedeva nei film! Figuriamoci ritrovarseli a scuola, tsè, quando mai accadrà, signora mia. ( effetto risata sarcastica )

Il tempo passa e Peter cresce. Si iscrive all’università e sceglie fisica, ma molto presto la trova troppo pratica e confusa. In più i corsi di fisica delle particelle sembravano roba da fantascienza, anni nel futuro senza nessuna applicazione pratica nel presente, quindi si scoccia e passa alla matematica. Impara quindi a programmare e segue un paio di corsi teorici di informatica ( badate bene, non pratici! Teorici!)  e, come tutti gli studenti fanno, gioca sui terminali APL dell’università, sprecando risme di carta su un gioco chiamato Conway’s Game of Life.

Dopo la laurea in matematica, studia robe tipo la memoria e la percezione umana e ci scrive sopra anche un libro che pur rimanendo inedito sembra aver ispirato le ricerche di un mucchio di gente su come funzionano i ricordi. Dopo un master in Teoria del controllo, trascorre alcuni anni come consulente software e questo accade proprio quando i mini-computer cominciano ad essere disponibili per le aziende e le informazioni vengono finalmente memorizzate su floppy da 8 pollici.

 

Dopo un percorso di studio così lungo, Peter Liepa ha già quasi trent’anni quando abbracciando la rivoluzione informatica si compra un Home Computer: è un TRS-80, il Tandy RadioShack, ma lo restituisce dopo un mese. Sfrutta quel tipo di accordo che ti permette di provarlo e dopo un mese può decidere se tenerlo o darlo indietro, no?

A quel tempo ha un amico profondamente appassionato di accessori elettronici. Questo amico ha in casa una TV a grande schermo retroproiettato e un Atari 400. Dopo diverse serate di gioco insieme, Peter ha l’illuminazione. Il cielo finalmente si squarcia e la luce della divina provvidenza lo investe in pieno: «Si! IO Posso riuscire a programmare un videogioco»

Così esce di casa, si compra un Atari 800, e inizia a scrivere Giochi. Ma piuttosto che iniziare semplicemente a scrivere un gioco così come viene, pensa che potrebbe essere prudente contattare un editore locale di videogiochi e chiedere a lui quale tipo di videogiochi stanno andando per la maggiore.

L’editore lo mette in contatto con Chris Gray, un’altro programmatore che aveva presentato una demo di gioco in Basic chiamandola PITFALL, ma che non aveva le capacità per convertirla in linguaggio macchina. Il gioco è molto simile a un altro già presente in sala giochi in quel periodo, si chiama The Pit, ma dopo averlo esaminato più a fondo, mmmh, naaa, a Peter proprio non piace e comincia a farsene uno tutto suo. Tanto per incominciare la demo di Chris è troppo statica e predeterminata. Modificandola conserva gli elementi di base: la terra, le rocce e gioielli, e in un paio di giorni costruisce un altro “motore fisico” di base per quello che sarebbe diventato Boulder Dash. « Mi sono reso conto che usando un generatore di numeri casuali si potevano generare caverne casuali, e che modificando la densità delle rocce e dei gioielli si potevano ottenere un gioco interessante». Il suo gioco faceva leva su tre pulsioni emotive fondamentali: l’avidità di raccogliere gioielli, la distruttività di uccidere i nemici, ma anche la nevrosi di voler pulire tutto a tutti i costi per portare a termine un lavoro.

E Chris Gray? Come l’ha presa Chris Gray? Come l’ha presa colui che ha presentato la demo ed è ufficialmente accreditato come co-autore del gioco?

Eh, Male.

Peter e Chris vivono abbastanza distanti in quel momento, non lontanissimi, stanno nella stessa città, Toronto, ma i loro incontri sono rari e comportano un lungo viaggio in macchina. Abbastanza rapidamente i due capiscono che i reciproci obiettivi e metodi di progettazione sono incompatibili. ( si, insomma, si stanno sui coglioni immediatamente ) e in più Liepa sta sviluppando un gioco molto diverso della Demo originale, e lo sta facendo da solo! Così, mentre Peter progetta la fisica, le caverne, il gioco, la grafica, la musica e gli da pure un titolo tutto suo, Chris aiuta con robetta di poco conto tipo la grafica della schermata del titolo componendola con i caratteri della tabella Atari. Tutto questo è difficile da digerire per Chris perché quello è un progetto suo che sta evolvendo in qualcosa di molto diverso e lui non può contribuire in alcun modo. Alla fine, i due discutono molto riguardo a cosa dovesse essere accreditato a chi, e questo porterà ad una serrata battaglia legale per le quote delle royalties che lascerà Liepa, ehm, abbastanza insoddisfatto.

 

All’inizio dello sviluppo il gioco non ha un nome certo. Ci sono vari titoli di lavorazione come “Crystal Caverns” o “Cavern Raider” o “Crystal Raider”, e altro. È solo intorno al quarto o quinto mese di lavorazione che Peter Liepa comincia a mettere a punto i dettagli tipo, appunto, il nome. Salta fuori che In inglese c’è una parola “balderdash” che suona esattamente uguale ma si riferisce a delle sciocchezze. È un idioma prettamente britannico. E così il nome Boulder Dash è in pole position  dato che poteva avere una doppia valenza suonando all’orecchio allo stesso modo. Per coincidenza poi, proprio in quel periodo esce sul mercato un gioco da tavolo che si chiama, guarda un po’, “Balderdash“, e quindi c’è un bel po’ di confusione fra il videogioco di Liepa e quel gioco da tavolo.

L’evoluzione del gioco è comunque rapida.

Prima Liepa sviluppa la fisica, che è il core centrale di tutto, ma il resto è ancora estremamente approssimativo. Il terreno è una successione di quadratini, le rocce sono cerchi e il personaggio del giocatore è un segno più. Poi il segno diventa una figura umanoide e accade perché Peter adora Choplifter. Sì,Choplifter, che è un gioco Brodernbund meritevole di ribalta qui in Atariteca e che mostrava delle piccole sagome umanoidi che correvano avanti e indietro per lo schermo con un elicottero intento a raccoglierle. Liepa pensa a quel tipo di rappresentazione per il personaggio controllato dal giocatore. Ma nella versione originale del suo gioco… beh, è piuttosto piccola. Le rocce, i muri, il protagonista, tutto è grande la metà di quanto sarebbe stato nella versione finale e al player non viene dato neanche un nome. Si chiama semplicemente “The man“.

Quando la prima demo funzionante viene mostrata all’editore… beh.. non va bene. Lo sprite del player non è interessante, non è carismatico, gli dicono. L’editore insiste che il gioco debba avere carattere, sia in un certo senso unico e memorabile per qualche particolarità. Così Liepa decide di raddoppiare le dimensioni di tutto. Vogliono del carattere? Ecco fatto! Beccatevi le grandi dimensioni e un labirinto che non entra più in una sola schermata, anzi, scorre a seconda di dove si posiziona il giocatore. In più, quando il personaggio rimane inerte comincia a sbattere le palpebre, a braccia conserte batte il piede per terra con fare scocciato, e questo lo rende il primo personaggio in assoluto nel mondo dei videogiochi ad avere un cosiddetto sleep mode. Ed è solo quando le cose diventano più grandi, quando c’è la possibilità di usare qualche colore in più che emerge “Rockford” come protagonista. Verrà chiamato così da First Star quando accetteranno di pubblicare il gioco e, ovviamente, c’è bisogno di fare marketing per promuoverlo.

Ma perché Proprio First Star Software? Fra i tanti editori del periodo, why proprio First Star? Perché non Electronic Arts che al tempo è sicuramente già più popolare? Beh, la scelta ha in qualche modo a che fare con Atari. Siamo nel 1984 e i videogiochi sono ancora una cosa esclusivamente identificata con Atari. First Star sta a New York City, che è molto più vicina a Toronto rispetto ad Electronic Arts, che invece risiede in California, dall’altra parte del continente, ma soprattutto First Star Software è una partnership al 50% con la Warner Communications, quindi l’inconsapevole Liepa pensa che i ragazzi della First Star siano ben finanziati, economicamente solidi ma, soprattutto, vicini.

Boulder Dash viene originariamente programmato per Atari 400/800 ed esce in formato cartuccia per queste macchine. First Star Software si impegna a contattare un certo numero di sviluppatori per eseguire i porting su più macchine possibile. Il primo capitolo di Boulder Dash arriva su Commodore 64, Apple II, ed anche sul grande sistema gioco all’orizzonte, il cosiddetto PCjr che al tempo  rappresentava l’ingresso di IBM nel mondo dei videogiochi. Su quella piattaforma in molti scommettono ( perdendo ). Lo fa anche First Star Software che ingaggia lo stesso Liepa per il porting. Ovviamente la storia ci è testimone. Il pCjr flopperà di brutto e nessuno se lo ricorda più. Ma sì, Peter Liepa ha personalmente curato due versioni di Boulder Dash, quella per Atari e quella per PCjr. Tra le due, il creatore predilige quella Atari. Liepa è un acceso fanboy di quegli home computer e pensa ancora oggi che siano i migliori.

E Visto il successo  riscosso, dopo appena un anno arriverà anche “Boulder Dash 2 – Rockford’s Revenge” che assomiglia molto a Boulder Dash 1, tranne per il fatto che ha alcuni nuovi gadget e, naturalmente, nuovi livelli. Dopodiché, First Star decide di mettersi in proprio mentre Peter Liepa sceglie di dedicarsi allo sviluppo di software per la computer grafica. Quindi in un certo senso i due si separano consensualmente ma intanto Boulder Dash 3, in lavorazione presso “American Action”, una software house esterna svedese, giunge a uno stallo. Così Liepa è costretto a ritornare, vola a New York per aiutare a creare alcuni livelli per il gioco. Niente di impegnativo, giusto tre o quattro giorni di lavoro. In realtà li aiuta giusto a sbloccarsi, e poi gli toccherà tornare anche per il cosiddetto Boulder Dash 4, che è il construction set dove ancora una volta lo sviluppatore incaricato si era bloccato per i troppi bug, ma son sempre toccate e fuga.

È bello parlare di titoli come Boulder Dash. Videogiochi della prima ora che spesso hanno intrapreso un cammino che li ha portati fino in sala giochi con una versione arcade derivata, tipo Lode Runner, vi ricordate? Ne abbiamo già parlato nella puntata numero 98 dedicata al micidiale caschetto dorato di Douglas Smith. Ma proprio riguardo a First Star Software occorre andare più in profondità ed entrare nel merito del sistema Exidy Max-A-Flex: un cabinato per videogiochi arcade basato, pensate, direttamente su un computer Atari 600XL. ( apri bene le orecchie qui, caro Mike Arcade. Questo è pane per i tuoi denti ).
Dicevo, il cabinato da gioco Max-A-Flex era davvero unico ai suoi tempi. Si presentava con un monitor a colori da 19 pollici, un singolo joystick con un singolo pulsante di fuoco e, nel cuore, aveva un computer Atari 600XL.

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Progettato per essere facilmente convertito all’utilizzo di altri videogiochi una volta esaurita la popolarità del titolo installato, la grande differenza con i cabinati dell’epoca era che il Max-A-Flex, per cambiare gioco, necessitava semplicemente la sostituzione di una cartuccia gioco e il cambio del Marquee. Letteralmente, un lavoro di 10 minuti per aggiornare il cabinet con un nuovo titolo. Exidy vende il Max-A-Flex agli operatori arcade per la modica somma di 1.900 paperdollari, e lo propone con 4 titoli intercambiabili; Boulder Dash, Astro Chase, Flip & Flop e Bristles. Furono promessi giochi futuri che sarebbero stati venduti per circa 100 dollari l’uno. praticamente Niente!
Le cartucce, ovviamente, non erano niente di dedicato. Erano semplicissime cartucce gioco standard per computer Atari 8bit. Funzionava così: Il giocatore inserisce la sua monetina e un timer gli concede un determinato tempo di gioco impostato dal gestore. Mentre si gioca, il timer esegue il conto alla rovescia e quando scade il tempo, all’intero pannello di controllo viene tolta alimentazione disabilitando tutti i comandi.

Le opzioni di gioco possono essere scelte tramite i pulsanti Start/Select/Option posti sul lato sinistro del pannello ( come da prassi su computer Atari ). Quando il timer scende sotto i 10 secondi, il cabinato emette toni audio progressivamente più alti per segnalare al giocatore che è necessario inserire più monete per continuare. Raggiunto lo zero, i controlli si disabilitano ma il gioco non si resetta. In questo modo su può inserire altre monete per alimentare i controlli e continuare o lasciare che le vite finiscano naturalmente in modo che un altro giocatore possa ricominciare da capo. Era una situazione strana rispetto ad altri giochi arcade, no? Potevi avere anche molte vite a disposizione, ma una volta scaduto il tempo il gioco finiva e chi si è visto si è visto.

Il rovescio della medaglia stava ne fatto che i giochi del Max-A-Flex erano semplici cartucce standard non customizzate, non c’era nulla che impedisse a un furbo operatore coin-op di inserire differenti vecchie cartucce Atari a 8 bit nel cabinato. Bastava che la cartuccia fosse compatibile con il 600XL, e avrebbe funzionato alla grande. Ok. Nel mondo ideale non era possibile utilizzare altri titoli senza pagare una licenza al detentore dei diritti ma di fatto, nel mondo reale, niente impediva di farlo.
Ma perché scegliere proprio un computer 600XL per il Max-A-Flex? Beh. La questione è interessante. All’interno del cabinato c’è un una scheda di video composita. Tuttavia, il 600XL non ha l’uscita composita del fratello maggiore, l’800XL. Si sceglie il 600XL perché semplicemente costa 100 dollari meno rispetto all’800XL. Tutti lì. E ovviamente per far funzionare l’uscita quel computer con il video composito si esegue una quantità significativa di modifiche sul computer.

Si, va bene, ma perché proprio Atari? Perchè scegliere un computer della famiglia Atari 8bit anziché, chessò, un Commodore 64, o uno spectrum, o un MSX?
Beh, anche questa è un’altra storia interessante. Dovete sapere che First Star Software è stata fondata dal sig. Fernando Herrera, un brillante programmatore su piattaforma Atari 8bit che vinse il premio annuale “Atari Star” con il miglior programma del catalogo Atari Program Exchange. Il premio consisteva in 25.000 dollari ( che al tempo erano tanti ) ed Herrera, in collaborazione con i produttori cinematografici Bill Blake e Richard Spitalny, impiegò quella cifra per fondare First Star Software all’inizio del 1982, e alla fine del 1983, titoli di giochi come Astro Chase, Flip & Flop, Omnicron Conspiracy e Boulder Dash la resero un editore di giochi per computer di alto profilo. Fu a quel punto che la società madre di Atari, Warner Communications, fece una joint venture al 50% con First Star Software diventandone comproprietaria.

Allo stesso tempo, lo sviluppatore coin-op Exidy stava cercando di fare qualcosa di innovativo e poco costoso nell’ambito arcade. Exidy era già nota in sala giochi per titoli come Crossbow, Venture, Star Fire, Mouse Trap, Circus, e stava cercando un modo per essere competitiva in termini di costi con i più grandi sviluppatori di giochi coin-op come Atari, Namco e Williams. Decise quindi di eliminare i costi di ricerca e sviluppo dei videogiochi e pensò che implementare una tecnologia già esistente in un cabinato arcade sarebbe stato un buon modo per abbattere i costi. Exidy tenne segreto il progetto Max-A-Flex. Il fondatore dell’azienda Pete Kauffman e pochi eletti ingegneri di Exidy ne erano a conoscenza fino a quando non venne finalmente rivelato pubblicamente insieme all’accordo di licenza con Warner e First Star per acquisire quattro dei loro giochi da utilizzare nel sistema. I dettagli del contratto, però, prevedevano di vendere un numero minimo di cabinati nel corso di un anno affinché l’accordo continuasse ad essere valido e lì cascò l’asino. Le informazioni disponibili ci dicono in 12 mesi dovevano essere vendute fra le 1000 e le 2000 unità. Purtroppo i cabinati prodotti e venduti agli operatori furono una cifra inferiore a 400 e quando Exidy non fu in grado di soddisfare i termini della licenza, First Star risolse l’accordo e Max-A-Flex svanì nell’oscurità.

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E Peter Liepa che fine ha fatto?

Beh, come detto in precedenza scelse un cammino professionale diverso da quello videoludico.

Si interessa quasi subito di grafica computerizzata che a quei tempi era abbastanza primitiva, ma in forte sviluppo. Inizialmente contribuisce allo sviluppo della grafica di una sorta di simulatore. La CN Tower di Toronto progettava di aprire un’attrazione dove si poteva giocare a un videogioco 3D che comportava l’essere in uno Space Shuttle e agganciarsi alla Stazione Spaziale. L’attrazione venne talmente bene che alla fine se la comprò direttamente la NASA per i primi esperimenti di realtà virtuale. Quindi, a progetto finito, Peter viene assunto in Alias ​​Research, ed entra nel team di sviluppo di Maya, un software professionale ampiamente usato anche ai giorni nostri per effetti speciali e produzione di videogiochi. Adesso appartiene ad Autodesk, ma sicuramente ha avuto un periodo di massimo splendore. Realizza anche un programma 3D che verrà utilizzato per girare il primo film live action di Spiderman. Quindi sì, Peter Liepa non si è annoiato ed è passato con disinvoltura dagli home computer a 8 bit a macchine di realtà virtuale all’avanguardia fino ad approdare agli effetti speciali dei film. E questo ha occupato più o meno gran parte della sua carriera fino ad oggi che è un matematico pensionato abbastanza arzillo.

Oltra a Exidy, anche altre società di software hanno rilasciando ulteriori versioni a gettoni di Boulder Dash ® . Data East, per dire, ha rilasciato due versioni arcade a gettoni; e la divisione Arcadia Systems di Mastertronic ha pubblicato una sua versione a gettoni intitolata Rockford™ il cui sviluppo è stato guidato da Fernando Herrera, uno dei co-fondatori di First Star Software e autore del primo gioco dell’azienda: Astro Chase™ e del suo terzo gioco, Bristles™.  Anche Peter Liepa ha progettato alcuni livelli per questa versione che in sala giochi girava su “Arcadia Multi Select System”, un sistema basato su Commodore Amiga 500 in grado di supportare più giochi.

Sebbene Boulder Dash abbia alcune somiglianze con The Pit, Dig Dug e Mr. Do!, ha comunque un buon design che non invecchia mai e il divertimento che si può provare giocandolo è ancora coinvolgente come quando lo si faceva nel 1984. Se siete fan dei puzzle game avete rinvenuto in archivio il gioco giusto per voi e oggi, nel 2023, anche se non semba, Boulder Dash spacca ancora.

Atariteca oggi vi ha parlato di diamanti, antipatia a pelle e soprattutto di  computer Atari, un argomento tra i miei preferiti. Se vi è sfuggito qualcosa trovate tutto sul mio sito internet www.ataritecapodcast.it, altri contenuti più o meno interessanti saranno sottoposti alla vostra attenzione sempre in questa sede in formato podcast oppure su youtube affiliandovi al canale dei Vintage People. Mi raccomando votata Atariteca tramite la App di Spotify e su Apple Podcast, e se vi sentite particolarmente magnanimi potete sostenermi con la donazione di un caffè attraverso il link in descrizione. A tale proposito  ringrazio di cuore Federico Ugolini, Massimo Belardi, Riccardo Scarparo e Daniele Contarino.

Ci risentiamo presto se vi pare, siate puntuali che io ci conto. Arrivederci

FONTI:

https://www.retrogamer.net/retro_games80/the-making-of-boulder-dash/
https://boulder-dash.com/history/
https://www.ign.com/articles/2009/06/23/boulder-dash-review
https://www.gamespress.com/Boulder-Dash-Deluxe-Launches-First-on-Atari-VCS
https://www.boulder-dash.nl/interview.php?lang=en
https://boulder-dash.com/boulder-dash-interview-with-peter-liepa/
https://www.classicarcademuseum.org/exidy-max-a-flex-system


Simone Guidi

Uomo di mare, scribacchino, padre. Arrivo su un cargo battente bandiera liberiana e mi installo nella cultura pop anni 80/90. Atariano della prima ora, tutte le notti guardo le stelle e aspetto che arrivino gli UFO.