Il rispetto per gli anziani: SPACE INVADERS e Tomohiro Nishikado

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space invaders

Ataritecari, qui si parla del gioco dal quale è iniziato tutto! Beh, magari non è esattamente così se si contano Pong, Space Wars!, o quel gioco di tennis un po’ raffazzonato che fecero con l’oscilloscopio.
Va bene, va bene, lo ammetto, NON è il gioco dal quale è iniziato tutto, però è sicuramente il gioco che ha reso grande l’industria dei videogames ed ha inaugurato quello splendido periodo di innovazione tecnologica e meraviglia adolescenziale che fu la Golden Age dei videogiochi.
La Golden che?!
Sì, dai ataritecari, quell’esaltante periodo che si collocò tra la fine degli anni ’70 e il 1985 in cui le sinapsi dei brufolosissimi si bruciarono a frotte tentando di battere un record.
Chè poi nel 1978, Space Invaders, oltre ad essere un gioco straordinario, ebbe anche la concreta fortuna di uscirsene sul mercato l’anno dopo che il mondo era stato preso a sganassoni fantascientifici dal buon George Lucas con le sue Guerre Stellari, e a calci nel popò dal compagnuccio di merende Spielberg con gli Incontri Ravvicinati Del Terzo Tipo.
Dopo che queste due bombarde deflagrarono nei cinema del globo, il pubblico divenne FAMELICO per tutto ciò che aveva a che fare con gli alieni, e l’elemento fortunato di Space Invaders era proprio questo: aveva un tema extraterrestre.

Il nipponico Tomohiro Nishikado, sviluppatore del gioco, inizialmente avrebbe voluto qualcosa dove carri armati e aeroplani si scontravano, ma poi intervennero i capi (la Taito) e gli dissero: «していません!» che poi vuol dire «NO!» in giapponese, e lo pregarono caldamente di concentrarsi su qualcosa che non includesse obiettivi umani altrimenti l’avrebbero SBUZZATO con la katana.
Il buon Tomohiro si mise quindi a fare un sacco di prove e alla fine trovò la quadratura del cerchio con il tema dell’invasione aliena.
Tomohiro aveva 34 anni all’epoca, ed era l’unico responsabile per il gameply, la grafica e il sonoro. In pratica era una specie di one-man band tipo Bennato quando faceva Edo Rinnegato col kazoo e tutto.

space invadersPer farsi venire una buona idea si guardò un po’ intorno; oltre a Star Wars, in quel periodo i giochi dove si rompevano i muri con le palline andavano alla grande. Prese ispirazione da Breakout di Atari e dopo che ebbe lavorato a parecchie varianti, Space Invaders fu il risultato finale.
Per gli alieni Tomohiro si riferì a quelli de “La Guerra Dei Mondi” di H.G. Wells che aveva visto da bambino nel film del 1953, e creò inizialmente le loro immagini bitmap come fossero tanti polpi, calamari e granchi.
All’inizio pure il titolo era diverso; si chiamava Space Monsters, ma venne cambiato in Space Invaders dai superiori di Tomohiro, quelli di prima con la katana ai quali non si poteva mai dire di no.
Ma paradossalmente per lui, il vero problema non fu il software bensì l’hardware estremamente limitato dell’epoca.
Poichè i microcomputer sul mercato giapponese non erano abbastanza potenti per permettergli di fare quello che voleva, Tomohiro dovette svilupparsi un hardware personalizzato per far girare il gioco. Si fece una mainboard ordinando dei nuovi processori 8080 provenienti dagli Stati Uniti e si dette un gran daffare. Il risultato fu ottimo al punto tale che la Taito, poi, riciclò quel circuito in ennemila giochi successivi, fece tipo un Invaders abito che tutti gli altri giochi poterono indossare.

Nonostante tutti questi sforzi, però, Tomohiro ANCORA non riusciva a programmare il gioco che voleva. La scheda ottenuta era sì figa, ma non abbastanza potente per visualizzare colori o regolare accuratamente la velocità dei nemici. Così, programmando il gioco, si rese conto che gli alieni erano lenti perché il processore non riusciva a gestirli tutti quanti. Ma, oltre quello, cosa videro i suoi stanchi occhietti a mandorla? Man mano che venivano fatti fuori i nemici, gli oggetti da gestire sul video diminuivano e il processore, liberandosi del carico, acquistava progressivamente in velocità di elaborazione facendo sì che l’ultimo nemico fosse letteralmente veloce come una scheggia.
Tomohiro ci pensò su e disse: «オフファック!» che non ve lo dico cosa vuol dire perché è una roba di maleducazione, e piuttosto che riprogettare la scheda per compensare l’aumento di velocità, decise di tenerlo così com’era in modo che la cosa funzionasse da difficoltà implicita del gameplay.

Space Invaders venne rilasciato in Nippolandia in formato cocktail-table con grafica in bianco e nero. Venne poi dato in pasto al mondo in formato cabinet verticale, dove il video non era direttamente visibile ma lo si poteva vedere riflesso su una lastra di vetro con fondale lunare contro uno sfondo stellato molto space.
Le artworks disegnate sul cabinato erano dei fighissimi mostri pelosi umanoidi, assolutamente non presenti nel gioco. Questo perché quando il lavoro venne commissionato all’artista che se ne occupò il gioco si chiamava ancora SPACE MONSTERS e il tipo andò d’intuito basandosi su quel nome lì.
E siccome, al tempo, eravamo tutti un po’ più poveri fuori ma ricchi dentro, la Midway, che distribuì il gioco in iuesei, appiccicò allo schermo delle pellicole trasparenti colorate per simulare il colore che ai cabinati giapponesi mancava. Solo più tardi questa consuetudine cominciò ad essere praticata anche in Giappone per poi, infine, essere abbandonata quando finalmente furono implementati i display a colori.

Vedete ataritecari, Space Invaders fu quel megaciclopico successo che è stato perché introdusse i fondamentali del gameplay. Era un notevole progresso rispetto ai primi videogiochi, era un po’ più difficile, c’erano tanti nemici controllati dal computer, c’era il concetto di prima, seconda, terza ondata (wave) e così via, c’erano le vite e il tabellone coi punteggi più alti.
Quando uno si metteva lì ai comandi non è che giocava, nossignori, DIMOSTRAVA LA PROPRIA ABILITÁ. Non c’era un limite di colpi da sparare né un tempo prestabilito, si doveva solo sopravvivere. Si doveva combattere.  Le ondate di alieni sarebbero calate giù sempre più velocemente fintanto che il giocatore fosse stato abbastanza veloce per distruggerle e continuare a giocare. Si doveva lottare.

Mamma Atari costruì la fortuna della sua console VCS quando decise di convertire il gioco per quella macchina. Nel 1980, Space Invaders rappresentò la prima licenza ufficiale di un gioco arcade per una console casalinga e venne programmato da Rick Maurer (che aveva precedentemente lavorato su Fairchild Channel F) ed era un mostro.
Sì, certo, non era uguale al gioco originale, dai, ma di sicuro sul VCS è affettuosamente ricordato da tutti i giocatori cresciuti in quegli anni proprio per quel motivo. Se possedevi un Atari VCS negli anni ’80 non potevi non averlo ( anche perché veniva fornito in bundle ), e la sua cartuccia avrebbe trascorso così tanto tempo nello slot che a un certo punto si sarebbe FUSA.
La conversione per VCS era anch’essa un gioco rivoluzionario come l’originale. Atari la allegò alla console e la cosa ebbe tanto successo da quadruplicarne le vendite e diventare la prima vera Killer Application della storia video ludica. Sì, va bene, non era appariscente come Solaris, o unico come Yar’s Revenge, ma era divertentissimo da giocare. Aveva una vasta gamma di opzioni da settare in confronto al gioco medio per VCS. Si poteva scegliere di giocare con le barriere che si spostavano, con le bombe nemiche più veloci, o con gli invasori invisibili, insomma, era una vera figata mai vista prima.
L’impatto che ebbe sulla società fu devastante e andò a toccare praticamente tutti i tipi di media e merchandising.
Tra le molte cose, si favoleggia che in Giappone ci infilarono talmente tanti spiccioli dentro da toglierli dalla circolazione, e la zecca si dette da fare per ristamparli, ma resta il fatto che Space Invaders entrò prepotentemente nella cultura pop rimanendoci fino ad oggi.
Uscirono sul mercato diversi dischi ispirati al gioco.
Il beone Martin Amis gli dedicò il titolo del suo discusso libro, e gli alienini del gioco sono diventati roba da street art e da t-shirt un po’ come la faccia del Che. Pac-man fara molto meglio, ma intanto…
Insomma corridori, adesso non vi resta che giocarci a ‘sto gioco e poi potete fare quello che vi pare.


Simone Guidi

Uomo di mare, scribacchino, padre. Arrivo su un cargo battente bandiera liberiana e mi installo nella cultura pop anni 80/90. Atariano della prima ora, tutte le notti guardo le stelle e aspetto che arrivino gli UFO.

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