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Il Cabinato venuto dall’oceano: I, ROBOT

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Nel 1984, la grande Atari Inc., un tempo divinità indiscutibile dell’industria dei videogiochi, se la sta passando piuttoso male. La crisi del mercato dei videogiochi americano l’ha colpita duramente, tanto duramente che la sua società madre, Warner Communications, sta pensando di liberarsene per evitare una clamorosa bancarotta finanziaria. Il risultato finale, lo sappiamo tutti, è che quell’estate Warner decide di separare la società in due parti : la divisione dei prodotti di consumo, che si occupa di console e computer, viene venduta a Jack Tramiel, appena fuggito dalla sua non più amata Commodore. La divisione arcade, ovvero, l’unica parte dell’azienda che è ancora redditizia, Warner la tiene per sé e la ribattezza Atari Games.
È in questo periodo caotico e transitorio che Atari riesce comunque a pubblicare un gioco che rimane tra i più rivoluzionari e unici, ma anche fra i più oscuri e dimenticati. È noto per essere l’ultimo arcade rilasciato da Atari Inc. e si chiama I, Robot.

I, Robot è un titolo rivoluzionario per un motivo molto semplice: è il primo gioco arcade interamente realizzato utilizzando poligoni ombreggiati 3D in tempo reale. Nessun vettore, nessun pre-rendering, niente del genere; semplicemente non si è mai visto un gioco arcade simile prima.
I, Robot, è anche qualcosa a cui Atari sta lavorando da diversi anni. È gestito da due dei suoi game designer di maggior successo: Dave Theurer, il creatore dei classici Missile Command e Tempest, e Dave Sherman, che ha lavorato all’hardware di Missile Command.
La natura innovativa di I, Robot non è molto conosciuta. Come ho detto prima, il gioco è oggi piuttosto oscuro, soprattutto perché è stato un sonoro flop, affossato dalla critica e dagli operatori coin-op dell’epoca e nemmeno particolarmente apprezzato dalla stessa Atari che lo lascia affondare senza tanti fronzoli… anzi, secondo una leggenda metropolitana I, Robot affondò letteralmente dato che si favoleggia di un fantomatico carico di 500 cabinati diretti in Giappone poi scaricati intenzionalmente in pieno oceano.

Comunque, a parte le leggende in stile E.T. disseminate nell’internet più oscuro, nonostante il suo fallimento, I, Robot è un titolo decisamente ambizioso, molto in anticipo sui tempi, che non ha niente in comune con gli altri giochi arcade suoi contemporanei, e per questo vale assolutamente la pena rivalutarlo.
Quindi, ecco la storia di questo piccolo arcade speciale: I, Robot. 

 

Il lavoro originale su quello che diventerà I, Robot inizia nel 1981, non molto tempo dopo che Theurer ha terminato Tempest.
Sì, avete capito bene. Questo videogioco arcade ha richiesto più di due anni per essere realizzato, ed è nato da qualcosa su cui Atari ha cercato di lavorare per molti anni, almeno dalla fine degli anni ’70 in poi, ovvero, un gioco di guida poligonale.
Per realizzarlo vengono fatti un paio di tentativi usando la grafica vettoriale, ma finiscono per essere abbandonati per cause puramente tecnologiche dato che, appunto, la tecnologia per realizzarlo semplicemente ancora non esiste! Atari, quindi, cerca di ripiegare sulla tecnologia raster ma anche in quel caso si trova in un vicolo cieco perché l’enorme quantità di memoria richiesta porterebbe il gioco a costare uno sproposito ( siamo all’inizio degli anni ’80. I chip di memoria sono un bene preziosissimo ).
Va detto, però, che questi primi esperimenti sono tutt’altro che inutili: la ricerca in ambito vettoriale porterà alla realizzazione dell’hardware che verrà utilizzato per Battlezone, Red Baron, e Star Wars.
Per darvi un’idea di quanto Atari sia ambiziosa nel voler realizzare un progetto simile a cavallo del 1980, si dovrà aspettare fino al 1988 prima che l’azienda, nelle vesti di Atari Games, riesca a creare un gioco che soddisfi a pieno questa ambizione, cioè Hard Drivin’.

Hard Drivin’

I, Robot è quindi il risultato del tentativo di creare questo tipo di gioco di guida e il primo a utilizzare la tecnologia raster anziché i vettori per proporre un 3D credibile. Dave Theurer immagina un gioco di alto livello – secondo una dichiarazione da lui rilasciata nel 1989, pensava a un gioco di guida – non di corse, ma di guida – in cui il giocatore avrebbe guidato in strada, fatto curve, si sarebbe fermato in vari negozi che avrebbero potuto essere esplorati in 3D, e in quei negozi si sarebbe potuto giocare ad ALTRI giochi arcade! Dico, una sala giochi ALL’INTERNO di un’altra sala giochi?! Questo sì che è… beh, sicuramente un sogno bagnato radicato profondamente nei dannati primi anni ’80!
Dave Sherman è l’uomo responsabile della gigantesca scheda che alla fine dovrebbe realizzare il sogno: una bestia piena di chip mai vista prima  che, secondo le testimonianze di molti, gli sviluppatori Atari battezzano con il nome di “Mondo Bondo” sia per le sue dimensioni, sia per l’impilamento di schede che sembrano un enorme blocco di appartamenti.
Tuttavia, questo colosso non è abbastanza: i giochi di guida esistono da tempo ma quando si tratta di sviluppare questo vengono fuori troppi problemi con l’interazione nell’ambiente di gioco, troppi problemi con l’auto che si muove in modo innaturale ogni volta che il terreno smette di essere piano, o troppi altri problemi che all’epoca sembrano insormontabili. Così, tutti questi tentativi nascenti di un gioco di guida finiscono per essere rielaborati in qualcosa di completamente diverso.
In realtà ci vuole un po’ prima che I, Robot diventi I, Robot. Per molto tempo il gioco è conosciuto sotto vari nomi come Ice World, Ice Castles o Heart of Ice.

In questo stadio della lavorazione il giocatore controlla un principe che viaggia lungo un percorso 3D, evitando ostacoli e varie creature, verso un castello dove salverà la principessa sciogliendo un blocco di ghiaccio contenente il suo cuore. Questa idea è basata su una vecchia fiaba dei fratelli Grimm chiamata “Cuore di ghiaccio”, e nientemeno che Mark Cerny viene coinvolto, ma il lavoro procede lentamente, troppo lentamente, con le energie di Cerny sempre più concentrate su quello che diventerà Marble Madness.
Così, alla fine si decide di combinare questo concept del viaggio del principe con l’hardware e il motore grafico su cui lavoravano Theurer e Sherman: due progetti claudicanti che si uniscono in uno.
Ma cosa rende possibile il passaggio da questo Ice World, o Ice Castles o la qualunque altro a I, Robot?
Ancora una volta non è del tutto chiaro, ma si presume con relativa certezza che durante lo sviluppo, vista la tecnologia grafica che il team aveva a disposizione, si sia ritenuto più pratico ricreare ambienti e personaggi robotici in 3D; personaggi dai bordi netti, più semplici da realizzare piuttosto che una bella principessa o figure umane più complesse.
Ma cosa ci raccontava il videogioco di I,Robot?

Beh, si gioca nei panni di “Unhappy Interface Robot # 1984“, un robot che ha deciso di ribellarsi al Grande Fratello e alle sue dispotiche regole, e il modo con cui manifesta la sua ribellione è colpendo il GF negli occhi. Per far sì che ciò accada occorre logorare il suo scudo spostandosi su tutti i blocchi rossi del livello facendoli diventare blu ( questo almeno per i primi 26 livelli poi i colori cambiano ), e infine saltando sulla sua piattaforma e sparandogli un raggio direttamente nell’occhio. Quindi, una volta fatto questo, il robot vola verso il livello successivo, evitando ostacoli vari e abbattendo tetraedi e altri oggetti mentre procede: queste due ambientazioni del gioco sono conosciute rispettivamente come “ground” wave e “space” wave.
Ci sono 26 livelli prima del primo loop di gioco e ci sono 5 loop di difficoltà crescente. Abbastanza semplice, vero? Beh, non necessariamente.
L’obiettivo di colorare un percorso ( o anche liberarlo di oggetti disseminati su di esso ) è ovviamente qualcosa che è già stato visto in altri famosi videogiochi, ma I, Robot, rende molto variabile questa formula: il percorso non è uniforme e cambia in modo selvaggio, in certi momenti non è immediatamente intuitivo trovare la via migliore.
Naturalmente ci sono molti nemici e modi per essere uccisi — ci sono vari tipi di uccelli o palloni da calcio che possono essere eliminati con un colpo o due, per non parlare di un timer che può diventare piuttosto castrante con la progressione dei livelli, ma ci sono altri nemici che fondamentalmente non possono essere uccisi, come i palloni da spiaggia, gli squali e le piramidi… se qualcuno di questi tocca anche solo una volta il nostro robot , lo uccide.
Naturalmente, lo stesso Grande Fratello è un nemico: la maggior parte delle volte tiene l’occhio chiuso, ma lo apre ogni 7 secondi circa. E se si salta mentre l’occhio è aperto? Eh, il Grande Fratello ti distrugge.

 

Poi nella parte spaziale ci sono altri nemici : dischi volanti, asteroidi e una testa fluttuante che spara punteruoli che si DEVONO distruggere. Alcuni dei nemici in realtà non si vedono fino al raggiungimento dei livelli successivi, incluso il più caratteristico di tutti (a cui arriveremo dopo).
Il gioco ha un pulsante per sparare, ma non uno per saltare, questo perché il nostro robot salta automaticamente ogni volta che lo si muove oltre il bordo delle piattaforme. Gli altri pulsanti disponibili sono in realtà i controlli della telecamera: si può spostare la visuale di gioco usando i due pulsanti dedicati alla selezione del numero dei giocatori.
Più la telecamera è abbassata al livello del Robot, più grande è il moltiplicatore di punti a fine livello poiché è molto più difficile giocare con una visuale in prima persona quando le cose appaiono enormi e gli ostacoli non sono immediatamente visibili.

E poi ci sono i nemico peggiori del gioco, dicevo: i Viewer Killer.

Quando i Viewer Killer colpiscono, in realtà mirano a TE, videogiocatore, non al robot, cioè si dirigono verso lo schermo attraverso il quale stai guardando, e l’unico modo per evitarli è cambiare il tuo punto di vista. È un’idea davvero meravigliosa! Devo dire che non riesco a pensare ad altri giochi che utilizzano una tale tecnica, ed è solo una delle tante cose che rende unico questo gioco.
Ovviamente, ci sono molti altri modi per guadagnare punti oltre a giocherellare con la prospettiva del gioco: si può finire i livelli in tempo record, o con il massimo punteggio mai fatto, si può abbattere tutti i tetraedi durante la wave spaziale e raccogliere tutte le lettere necessarie per scrivere la parola ” I, ROBOT”. Queste sono solo alcune delle cose che ti danno grandi bonus e di solito sono accompagnate da effetti grafici piuttosto colorati.
In realtà esiste una sorta di warp zone tipo come in Super Mario ma anni prima che Super Mario venisse rilasciato: nel primo livello un trasportatore posizionato in basso a sinistra ti porta automaticamente a uno qualsiasi dei primi cinque livelli di gioco, o all’ultimo livello in cui ti trovavi prima di morire.
Ci sono anche altri scenari sparsi qua e là, dalla già citata gita spaziale fra un livello e l’altro si arriva allo scontro spaziale con la testa maori fluttuante che devi allontanare a suon di colpi per impedirgli di spararti punte accuminate. Si può entrare nella Piramide del Grande Fratello dove si raccolgono gioielli e lo si deve fare rapidamente prima che una sega circolare tagli completamente lo stage a fette.
E poi c’è la cosa che è probabilmente la più strana di tutte: all’inizio, invece di giocare a I, Robot, si può effettivamente scegliere di spendere il credito all’interno di un qualcosa chiamato “Doodle City“.

Questa strana piccola “cosa”, descritta nella schermata di selezione come un “non gioco“, è un luogo in cui ci si può divertire con i vari oggetti del gioco, spingendoli sullo schermo, girandoli, cambiando lo sfondo, creando scie… questo strano piccolo programma di disegno 3D serve soprattutto come dimostrazione tecnica. Ogni credito ti fa guadagnare tre minuti di tempo all’interno di Doodle City e si può passare da Doodle City al gioco regolare quando su vuole ma ricordando che ogni minuto trascorso lì ci costa l’equivalente di una vita nella versione I, Robot.

È una cosa originalissima, e non credo esistano altri giochi in cui si abbia la possibilità di giocherellare con una sorta di primitivo programma artistico 3D in alternativa al gioco principale. In effetti, mi sa proprio che non esiste. Se tu lo conosci ataritecaro, dimmelo nei commenti.

Ora, quando si entra nel merito del perché questo videogioco ha fallito, possiamo citare anche la presenza di questo piccolo “Doodle City”, qualcosa che in realtà è stato aggiunto molto tardi nello sviluppo del gioco ed è una specie di abbellimento finale, a quanto pare una flexata di orgoglio di  Theurer e Sherman per il motore grafico che hanno creato.

Quindi, perché questo gioco rivoluzionario è diventato un enorme e costoso flop che non viene ricordato al giorno d’oggi?

Ci sono diversi motivi, e mentre è facile essere banali e dire che è un gioco anni avanti rispetto ai suoi tempi e troppo complesso per essere compreso dalle masse ingrate e ignoranti dei primi anni ’80, molti dei motivi sono piuttosto pratici e comprensibili.
Infatti, sembra che le prime persone a non essere pienamente convinte di I,Robot siano state proprio quelle nella dirigenza di Atari.
Questo potrebbe essere il motivo alla base dell’estremo ritardo nell’uscita sul mercato: a giudicare dalla data del copyright sulla schermata del titolo, il gioco è stato presumibilmente terminato nel 1983  ma non è uscito fino al 2 ° trimestre del 1984, e ci si chiede: con lo stato confusionale imperante all’interno di Atari in quel momento della sua storia, e con lo sfavore dichiarato della dirigenza, quanta promozione potrebbe aver ricevuto questo gioco? Datevi una risposta da soli, miei PERSPICACI lettori.
E riguardo al cabinato? Vogliamo parlare del cabinato di I,Robot? Hai questo gioco rivoluzionario, per non parlare dell’enorme bestia che sono le sue board impilate, e tu dove le metti? Beh, si decide di riutilizzare i cabinet precedentemente realizzati per il lasergame “Firefox“, un altro gioco che non aveva performato particolarmente bene ed è noto più di ogni altra cosa per i frequenti guasti, il che, ad essere scaramantici, potrebbe essere di cattivo auspicio. A un certo punto questo tipo di cabinati furono predisposti per ospitare Major Havoc, un altro gioco Atari Inc. di fine periodo piuttosto interessante, ma si è ritenuto che I, Robot si adattasse meglio al design.

E propri il suo cabinet è luogo per un’ulteriore innovazione, questa volta nel modo in cui il gioco viene controllato.
I, Robot non utilizza un joystick standard, ma bensì un joystick “hall effect“, che si basa su un sistema magnetico anziché su micro switches. L’idea dietro a questo tipo di joystick è che sarebbe stato più affidabile di uno normale perché non si consumava tramite lo sfregamento sui sensori fisici come fanno i joystick comuni, ma secondo voi in che modo tutto ciò influisce sul costo della macchina per gli operatori del settore?
Beh, nel 1984, una volta finito il cabinato di I, Robot viene venduto a 1.995 paperdollari – che sono più di 5000 dollari di oggi tenendo conto dell’inflazione … una macchina piuttosto costosa quindi, e ovviamente non c’è alcun kit di conversione o roba del genere – se tu gestore di sala giochi vuoi I,Robot devi comprare una macchina dedicata o niente.

E… beh, capite che l’intento è fallace. il gioco floppa male, nonostante fosse molto diverso dai soliti, nonostante fosse pionieristico, nonostante fosse avanti, I,Robot è un fiasco.

La quantità di macchine I, Robot realizzate varia da un massimo di circa 1500 a un minimo di 750, il che dimostra come la domanda fosse bassa, e si dice che alla fine di queste macchine, Atari probabilmente ne abbia vendute circa 500. Una parte di quanto accaduto è certo dovuta alla natura del gioco stesso, e un’altra parte potrebbe essere dovuta alla crisi generalizzata delle sale giochi in quel momento, ma ci sono anche altri fattori che vale la pena notare.
Il gioco si rivela incredibilmente impopolare tra gli operatori, in gran parte perché è MOLTO inaffidabile sotto due punti di vista critici: il primo è che la sua enorme scheda tende a rompersi, in gran parte a causa di una fornitura di chip RAM difettosi che vengono inclusi in quasi tutte le copie del gioco, e un alimentatore che tende al surriscaldamento.
Chiunque abbia trascorso un po’ di tempo in sala giochi probabilmente conoscerà molto bene il messaggio che I, Robot proponeva sullo schermo ogni volta che la macchina si bloccava “You’ve hit a black hole” , e ciò significava che questa costosa macchina arcade troppo spesso passava un bel po’ di tempo in infermeria senza guadagnare soldi.


Un altro grosso problema tecnico? Quel dannato joystick hall effect!
Teoricamente non è necessariamente una cattiva idea, tuttavia, in pratica, alla sua prima implementazione in I, Robot l’esito è fallimentare e sono veramente pochissime le macchine sopravvissute che lo hanno conservato. Per i collezionisti è difficilissimo trovarlo a prezzi umani e prima di intraprendere la sua riparazione, beh, ci pensano due volte perché i prezzi sono esorbitanti. ( l’amore per un gioco può portarci in viaggi piuttosto epici e costosi.)

Ma alla fine, I, Robot è un gioco a cui vale la pena giocare?

Direi assolutamente di sì: non c’è nessu arcade simile nella golden age dei videogiochi. Mentre c’erano ovviamente altri giochi dell’epoca che cercavano di riprodurre il 3D, sia con i vettori che con i cubi renderizzati, nessuno di loro ha il pacchetto 3D completo che ha I, Robot.
E… beh, sicuramente occupa una nota importante nella storia dei giochi arcade, anche se come gioco è piuttosto oscuro. Se tutto va bene, il conoscere la storia di questo classico dimenticato cambierà un po’ le cose… speriamo.

FONTI:
https://www.atariage.com/news/irobot/
https://www.ign.com/articles/2008/08/28/the-revolution-of-i-robot
https://youtu.be/ljvtCR8UEdw


Simone Guidi

Uomo di mare, scribacchino, padre. Arrivo su un cargo battente bandiera liberiana e mi installo nella cultura pop anni 80/90. Atariano della prima ora, tutte le notti guardo le stelle e aspetto che arrivino gli UFO.